La Stampa, 28 giugno 2024
Intervista a Sabina Guzzanti
All’indomani del voto europeo, quando Meloni è parsa Churchill e l’Italia l’isola della salvezza, àncora e clinica d’Occidente, Sabina Guzzanti ha detto: «Siamo i meno fascisti d’Europa!». Lo ha detto aprendo le braccia, con il sorriso forzato del male minore: quello delle cattive notizie che diventano buone per comparazione. Lo stesso sorriso che aveva quando imitava Silvio Berlusconi, la maschera ufficiale dell’indulgenza verso la truffa all’italiana.
La satira la definiscono in tanti e la fanno in molti di meno, ma quella frase di Guzzanti, detta e recitata in quel modo, è la satira perfetta, e cioè la freccia, più che il graffio; «l’uovo di Pasqua con la sorpresa dentro», ha detto una volta Serena Dandini.
Domenica 30 giugno, ad Agliè, Torino, per il festival della Reciprocità, debutta il suo spettacolo Liberidì Liberidà.
Guzzanti, la libertà è un valore assoluto?
«Libertà è prima di tutto una parola che non basta a definire quello che significa».
E allora che si fa?
«La si mette in un contesto».
Dunque non è un valore assoluto.
«È un valore essenziale. Ma richiede un lavoro che la svincoli dai condizionamenti esterni e, soprattutto, interni, che sono quelli più subdoli e resistenti, e li vediamo solo quando stiamo tra gli altri e partecipiamo alla vita sociale».
E se quelli con cui ci confrontiamo sono anche loro condizionati?
«Più che condizionati, dovremmo dire manipolati, perché la manipolazione delle coscienze la subiamo tutti, anche i più vigili di noi, anche io, anche lei. Ed è la conseguenza della demagogia e della propaganda perpetuate per mezzo delle nuove tecnologie, che influenzano i nostri consumi senza che ce ne rendiamo conto. E non perché siamo sonnambuli, ma perché non veniamo formati: la formazione tecnologia, per quel poco che viene fatta, è intesa solo come insegnamento del meccanismo tecnico. E invece dovrebbe mirare a darci etica e coscienza».
Cos’è la cultura?
«Saper stare in mezzo agli altri e avere una consapevolezza che ti renda capace di mettere quello che apprendi dentro una griglia. La cosa grave dello strafalcione del ministro Sangiuliano su Galileo e Colombo non è che gli sfuggono le date, bensì che non sa come si è evoluta l’umanità».
L’ignoranza di chi ci governa non sembra allertare nessuno, però.
«Perché la cultura viene vissuta come un fattore di oppressione anziché di liberazione. Tanto a destra quanto a sinistra, nessuno si è mai troppo impegnato per evidenziare il legame diretto tra cultura e democrazia».
Due cose in crisi perenne.
«Perché sono collegate. La democrazia è ridotta sempre di più al voto e chi viene votato, dal canto suo, intende l’essere stato votato come un lasciapassare per fare quello che gli pare: la destra al governo non solo lo dimostra, lo ribadisce tutte le volte che può».
È vero che la sinistra ha costruito una sprezzante, escludente egemonia culturale?
«È vero che un’idea sbagliata di cultura intesa come privilegio si è sedimentata. I nostri prodotti culturali sono al 95 per cento non necessari, non corrono mai un rischio e chi ha gli strumenti per osare di più si limita a fare i fatti propri».
Lei ha detto che gli intellettuali non hanno più fiducia nel pubblico.
«Mi sembrano più interessati a cercarne il consenso».
Ma è vero che c’è stato un decadimento del pubblico?
«L’umorismo è un settore delicato: saper ridere significa saper non offendersi e richiede apertura mentale. In questo, sì, c’è stato un decadimento impressionante».
Quando ha detto, a Propaganda Live, su La7, dopo le Europee: «Siamo i meno fascisti d’Europa!», era sarcastica ma pure un po’ contenta?
«Pure un po’ contenta, certo. Il nostro è un Paese fascista ma anche tanto antifascista, è dotato di ottimi anticorpi e il voto di giugno lo ha dimostrato: la paura di provvedimenti autoritari ha fatto reagire gli elettori. Però la sinistra le elezioni le ha perse. Sarebbe potuta andare peggio, come in Francia, ma abbiamo perso. Ci siamo uniti contro un nemico, ora dobbiamo unirci intorno a un progetto».
Schlein le piace?
«Condivido tutto ciò che dice ma non mi è chiaro come intende realizzarlo. Spero riesca a non farsi sabotare: il Pd è ancora un partito maschilista. Se nel simbolo ci fosse stato il nome di Schlein, avrebbe preso un altro paio di punti. Se avesse candidato Ilaria Salis, 4».
L’anno scorso, parlando di uno spettacolo che portava in scena, ha detto: «Non voglio più fare satira, ho la sensazione che il pubblico mi chieda cosa deve pensare».
«Mettevo lo spettatore in una condizione che lo obbligava a farsi un’idea sua, perché per me la soluzione a tutti i guai che andiamo fronteggiando è la consapevolezza dei singoli. La consapevolezza è il gesto politico più importante».
La satira serve a?
«Dire ciò di cui non si parla».
Cosa non diciamo di questo governo?
«A me impressiona che non ci sia stato un dibattito pubblico su come spendere i soldi del Pnrr».
Meloni ha esaltato il fatto che siamo stati i primi a chiedere la sesta rata in Europa.
«Eggià».
Gli italiani delegano?
«Gli italiani da decenni vengono scoraggiati dal tentare qualsiasi forma di partecipazione. La piazza è stata criminalizzata ed è un miracolo che i ragazzi stiano tornando a occuparla. Forse lo fanno perché sono gli unici a non guardare la tv».
Dove lei va col contagocce.
«Amo di più il teatro e le piccole produzioni indipendenti».
Riesce a lavorare nelle realtà indipendenti perché è Sabina Guzzanti?
«Au contraire. Ho diretto 7 documentari e hanno avuto tutti un grande successo ma me li sono sempre dovuti autoprodurre. È sempre stata una fatica enorme: tutte le volte ho dovuto ricominciare da zero».
Altro ostacolo, dopo il suo nome e cognome?
«La burocrazia, che è una forma di censura».
Essere Sabina Guzzanti ha solo svantaggi?
«Ma no. E tanto farò questo finché campo. Ma c’è una ostilità forte contro di me, una quantità di calunnie che ancora pesano. Tempo fa ogni volta che facevo uno spettacolo c’era una interrogazione parlamentare. Da vent’anni mi devo difendere dall’accusa di aver preso in giro Oriana Fallaci per il cancro ma non l’ho mai fatto in vita mia. Quando censurarono Raiot, che andava benissimo, la gente scese in piazza: nessuno lo ricorda, e non vengo quasi mai nominata quando si parla dei casi di censura in Italia».
«Gli italiani non amano la libertà». Chi l’ha detto?
«Mio padre».
Concorda?
«La libertà è faticosa per tutti, non solo per gli italiani. Richiede uno sforzo che una società democratica e sana incoraggia. Noi lo scoraggiamo».
Come si incoraggia?
«Intanto portando come esempi positivi coloro che fanno quella fatica. E premiandoli».
Ridere è un collante sociale?
«Sì. Quando si ride, si ride insieme. Ridiamo quando riconosciamo un errore. Il comico ci aiuta a vederlo». —