il Giornale, 28 giugno 2024
Florenskij, la scientificità della poesia
Alle isole Solovki, dove lo avevano costretto dal febbraio del 1933, Pavel Florenskij studiava il ghiaccio. Mefistofeliche storture della Storia: l’antico, mirabile monastero del XVI secolo era stato defraudato e convertito nel primo gulag sovietico. Il 27 novembre, al figlio Mik, Florenskij scrive di fiumi che «ghiacciano fino al fondo», di «bellissime cascate di ghiaccio, come nel Regno addormentato». Come si sa, Florenskij viene fucilato quattro anni dopo, in un luogo ignoto, nei dintorni di Leningrado. Eppure, perfino nel cuore della disperazione, continuava a stupirsi del creato, continuava a sondarne i misteri.
Certamente, le ossessive osservazioni sul ghiaccio testimoniano per trasporto emotivo il genio di un’epoca raggelante. Nel ghiaccio, però, Florenskij intuiva anche altro: nell’acqua che si marmorizza, nel suo fatuo cuore di cristallo, liquido e concreto, si rivela la natura dell’anima, l’avvio verso una purificazione. «Un giorno che avrai tempo, esamina la struttura dei ghiaccioli, per ricordarti così del tuo papà. Prova a tagliarli per lungo e per traverso, osserva con la lente di ingrandimento come sono disposti i cristalli, disegna quello che vedi e poi riferiscimelo», scrive al figlio, è il gennaio del ’34. Anche così si santifica un amore.
All’attività scientifica, negli inferi del gulag, Florenskij alternava l’opera lirica. Oro, il poema testamentario, è una piena di ghiacci, di «aurifero gelo» sfiancato dal sorgere dell’estate. Anche questo poema è dedicato al figlio Mik; alcuni passaggi sono particolarmente riusciti, questo, ad esempio: «Un germoglio, un boccio, un fiore, un frutto,/ Ogni cosa vive di propria gioia,/ Cosa più bella, consola l’occhio./ Non aspettare, quindi, e rallegratene ora». Florenskij canta il creato nel punto esatto in cui la creatura muore: le cose splendono adornate degli ultimi sguardi.
La prima fonte di Oro è Oro in azzurro, l’opera prima di Andrej Belyj, tra i più folgoranti poeti russi del Novecento. Belyj che significa «bianco» era figlio di Nikolaj Bugaev, il professore di matematica di Florenskij. Dopo aver letto l’opera dell’amico, Florenskij esultò, scrivendogli, sinteticamente: «Bellezza. Musicalità. Ricchezza d’immagini. Splendore. Associazioni. Varietà di colori». A quegli anni ne aveva poco più di venti datano anche le prime, risolute prove poetiche di Florenskij (ora raccolte in: Pavel Florenskij, Poesie, Aragno, pagg. 178, euro 20; a cura di Lucio Coco). Una poesia è dedicata proprio a Belyj; ritorna lo stigma dell’oro: «Tu una volta mi hai affascinato con un sacro fuoco.../ Di un oro liquido l’oceano cominciò a brillare,/ in una frangia di linee di fuoco». I versi ustionano, per micidiale preveggenza. Andrej Belyj, l’autore di Pietroburgo, annoverato da Nabokov tra i grandi libri del secolo, assieme alle opere di Kafka, Joyce e Proust (in Italia lo edita Adelphi), visse la Rivoluzione tra orrori e stenti: durante i torbidi della guerra civile attizzava la stufa con i suoi manoscritti; nel 1934 morì per i postumi di un colpo di sole. Il «sacro fuoco», il rubino del rogo interiore, si voltò nella volgarità dell’incendio collettivo. «Io stesso voglio ardere», scrive Florenskij in una poesia di rara nitidezza, Nazireo. Il fuoco, il ghiaccio.
Insieme a Belyj, Pavel Florenskij credeva nella rigenerazione del proprio tempo attraverso un pensiero che unisse ricerca spirituale e osservazione scientifica, la fisica e la mistica, la prassi lirica e quella matematica. «Che cosa ho fatto io per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione», scrive Florenskij nel 1937 al figlio Kirill.
Sostanzialmente ostracizzato dai primi anni Venti, arrestato la prima volta nel 1928, con le lettere dal gulag (ora pubblicate da Mondadori in edizione completa, a cura di Natalino Valentini e Lubomir ák come Vi penso sempre..., pagg. 696, euro 22) Florenskij ha scritto l’opera della colossale compassione. Il filosofo, lo scienziato, il poeta, si consegna ai propri familiari, esercita l’alta maestria dell’ergastolano, riconosce nella coercizione concentrazionaria l’eroico statuto del cristianesimo. Il suo libro, per intima intensità, è se possibile più vasto degli spiazzanti repertori letterari di Aleksandr Solenicyn e di Varlam alamov. In una poesia della giovinezza, Amor fati, già inscrivendosi in un destino, Florenskij appunta: «La fine è vicina, Dio lontano,/ e io non oso rivolgere con l’anima/ una preghiera a Lui, non ne ho la forza,/ e taccio, abbassando lo sguardo».
Negli ultimi anni della detenzione, prese a studiare le alghe. Amava quelle forme impalpabili, che mutano a seconda delle circostanze, che si possono mangiare. Ancora una volta, nei suoi studi traspirava l’etimo di un’epoca, lo stigma della ricerca spirituale. «Sulla riva del mare ho raccolto delle alghe interessanti e le ho riposte nella mia bisaccia, senza la quale non faccio un passo. Il mare sta cominciando a gelare». Ogni singolo elemento del mondo respira della singolarità di Dio, per questo va studiato. Aveva fatto testamento molto tempo prima, nell’aprile del 1917. Chiedeva ai figli di «non soffrire per me», li intimava di «fare la comunione» appena lo avessero seppellito e «di ricordarvi del Signore, di vivere al suo cospetto». Gli chiedeva di onorare gli avi: «Non dimenticate la vostra stirpe, il vostro passato, studiate quanto riguarda i vostri nonni e antenati, adoperatevi a rafforzarne la memoria». Sta come zucchero sulle labbra questa frase: splende, così inattuale. Quanto al resto, i grandi poeti in Russia hanno sempre subito grandi torti. In un tempo tenebroso, si ostinavano a predicare l’amore, il culto azzurro dell’azzardo; al tribunale del popolo preferivano il Giorno dei Giudizio.