la Repubblica, 28 giugno 2024
Intervista a Michele Riondino
Michele Riondino, “Palazzina Laf” ha vinto cinque Nastri d’’argento: esordio, attore protagonista, Elio Germano non protagonista, la sceneggiatura e “La mia terra” di Diodato. Quali le danno più gioia?
«Miglior esordiente e sceneggiatura: competevamo con registi e film importanti. Mi piace celebrare il lavoro fatto con Maurizio Bracci e l’incontro con Alessandro Leogrande (scomparso nel 2017, ndr).La storia della Palazzina Laf è un pretesto per raccontare un ricatto, ed è un tratto antropologico dei lavoratori oggi, considerati numeri. La lotta di classe si è trasformata in una guerra fra poveri, dove le competenze non hanno più nessuna importanza e la furbizia è il solo elemento premiato».
Il film ha fatto un lungo viaggio nel Paese. Un incontro che le è rimasto impresso?
«Ovunque il pubblico a fine proiezione raccontava la propria storia. Ricordo il coraggio di un ex lavoratore dell’Alfa Romeo a Milano, di raccontarsi nella sala piena. Ci ho messo anni a raccogliere racconti degli ex confinati, non è facile condividere le umiliazioni subite».
Da sempre lei ha un occhio attento e critico verso la politica.
Con questo governo la situazione di alcune classi sociali è peggiorata?
«Decisamente, è sotto gli occhi di quelli che le cose le vogliono vedere.
Se parliamo di Ilva, nello specifico, qualche giorno fa è arrivata la notizia che i cassintegrati supereranno le cinquemila unità, il ministero guidato da Urso chiede alle parti sociali di rassegnarsi all’idea che altri 2500 lavoratori andranno in cassa integrazione: senza un programma, senza un progetto industriale. È l’ennesima prova di un governo – questo di destra come gli altri che lo hanno preceduto – che non sa che pesci pigliare. E così vediamo la guerra tra poveri, lavoratore contro lavoratore. Il mio film è proprio sulle competenze: chi le difende risulta meno furbo di che non le ha, ma tira acqua al proprio mulino, facendo affogare il prossimo. Così ci troviamo operai senza competenze, ministri incompetenti. Nel Paese c’è un problema sociale di competenze, l’assenza di un sistema meritocratico che ammette nei posti di comando chi è davvero preparato. Questo governo sta dimostrando di avere molta rabbia, di essere vendicativo e di anteporre al benessere dello Stato quello del proprio colore politico».
In “Sbatti il mostro in prima pagina” di Bellocchio, appena restaurato, il caporedattore Volontè insegna al cronista come “anestetizzare” la notizia della morte di un padre di famiglia suicida dopo il licenziamento. Oggi c’è una comunicazione astratta efintamente positiva.
«All’inizio diPalazzina Laf il lavoratore atipico Caterino colpevolizza l’operaio morto in un impianto perché “se uno non è buono a lavorare se ne sta a casa”. Il proprietario dell’azienda del bracciante indiano di Latina non solo ha colpevolizzato il lavoratore della propria morte, ma anche di aver provocato una tragedia, rovinato l’estate. È il risultato della comunicazione drogata di cuiparliamo. Ce la vendono così. Il problema è che il male minore – rispetto a possibili ispettori del lavoro – è abbandonare un uomo agonizzante davanti casa».
Sta tornando un cinema sociale?
«È stato un anno ricco di questi temi, Albanese, Garrone, Cortellesi raccontano storie di persone che hanno a che fare con problemi reali, concreti. Ho girato questo film non per velleità registiche, ma perché ho pensato che quella storia potesseessere utile e interessante. Vorrei farlo almeno un’altra volta nella vita».
Daniele Vicari ed Elio Germano sono riferimenti per lei.
«Daniele mi ha aperto le porte del cinema (Il passato è terra straniera, ndr.),lo consulto, come con Andrea Camilleri mi confrontavo sui dubbi.
Daniele mi ha insegnato che un film ti aiuta a ragionare. Con Elio siamo diventati amici a un tavolo da poker in quel film in cui eravamo due bari.
C’è una condivisione di idee che è diventata amicizia profonda. L’ho coinvolto prima di offrirgli il ruolo».
A chi dedica i premi?
«La sceneggiatura ad Alessandro Leogrande e voglio ricordare il capo macchinista Luciano Mastropietro, morto prima di vedere il film».
Con “Palazzina Laf” ha fatto i conti con il passato?
«Film e personaggio mi hanno permesso di trovare la giusta distanza tra me e quel tipo di umanità che a Taranto purtroppo è parte del problema. Caterino non è Giuda, è un diseducato, ignorante, il prodotto di decenni di ingiustizia sociale. Si disinteressa del bene comune, trova nella furbizia l’unica strada per sopraffare il prossimo. Ho avuto a che fare con persone come lui per 18 anni, fino a che sono scappato.
Quando ho abbracciato la protesta tarantina, non ho fatto altro che sentirmi dire – con gli altri attivisti – che è per colpa nostra che Taranto non ha turisti. Mi hanno accusato di guadagnare sull’Ilva, sulla protesta. I sindacati mi hanno invitato, come fa Salvini tante volte, a occuparmi del mio lavoro e non della fabbrica che non conosco. Io ho accettato il consiglio e ho fatto il film su cose che so, che ho subìto da cittadino. Il film mi è servito per staccarmi una volta per tutte – me l’ha detto la mia analista – da tutto questo».
Cosa vorrebbe essere e cosa spera di non diventare?
«A 45 anni credo che non diventerò mai una persona arida e disinteressata, e credo di essere diventato affidabile».