la Repubblica, 28 giugno 2024
Danilo Dolci il cantastorie degli invisibili
Profeta della non violenza, digiunatore per protesta, inventore degli scioperi “alla rovescia” (lavorare anche da disoccupati), Gandhi siciliano, teorico dell’agire e non del solo predicare, spalleggiato dall’Italia dei Bobbio e dei Calvino. Tanto è stato detto su Danilo Dolci (1924-1997), non solo in questo centenario dalla nascita.
Meno è stato sottolineato, invece, quanto fu un “veggente del linguaggio”, colui che prima di Andrea Camilleri inventò una parlata siciliana inedita, tra l’italiano corrente e il vernacolo, per farne letteratura nuova. Una tecnica che rese gli impersonali documenti degli storici un concentrato di poesia. Questa attitudine (per lui quasi una religione) fu anche la base della sua rivoluzionedolce. Oggi i critici lo annoverano tra Foscolo e Mazzini: autori che seppero dare alle proprie istanze civili la voce della letteratura. Nulla di meglio, per comprenderlo, che questi Racconti siciliani, usciti nel 1963 per Einaudi e oggi riproposti da Sellerio, dove Dolci – su suggerimento di Calvino – raccolse il meglio dei suoi libri precedenti.
Ma c’è un paradosso. Di questa cifra letteraria nuova, forse perché offuscata dalle sue avventure civili, si accorsero poco i contemporanei. Se ne avvidero, invece, magistrati e questurini suoi persecutori, che abbondantemente ne disquisirono. Tra i molti processi, uno gli era stato intentato per “pubblicazione oscena” e “oltraggio al pudore”, quando nel 1956 Nuovi Argomenti (con nota di Ernesto De Martino) anticipò il suo Inchiesta a Palermo. Al dibattimento testimoniarono a favore Bobbio, Lombardo Radice, Vittorini, Carlo Levi e la sua difesa venne assunta da Piero Calamandrei.
Ma il dato significativo è che due sentenze opposte sveleranno indirettamente l’arcano della sua “nuova letteratura dell’agire”. La magistratura del primo grado, infatti, nell’analizzare trentasei «racconti autobiografici», narrati «con il metodo della testimonianza diretta e con i termini precisi del linguaggio di chi racconta i fatti della vita» (come recita la sentenza) ammette il «valore letterario» degli scritti e tuttavia condanna Dolci per oltraggio. Nella sentenza d’appello, al contrario, Dolci verrà assolto, ma il dispositivo negherà ogni valore artistico ai testi, per via di un eccesso di «contenuto sociale», pur ammettendone «la forza di shock narrativi» che rendono «idee e sentimenti» dei protagonisti cui viene data la parola.
E chi sono costoro? Il verghiano “popolo dei vinti”. Dolci ne scrive perché bisogna trarli dall’inferno. Pasquale Beneduce, a commento del volume Processo all’articolo 4 (quello costituzionale sul diritto al lavoro), che raccoglie atti e testimonianze dei dibattimenti, afferma che il poeta- sociologo era «un uomo in bilico fra i due blocchi freddi che negli anni ’50 dipingono il mondo in bianco o in nero».
Per di più, non era il classico scrittore piegato sulla scrivania. Anzi: le foto lo raffigurano in un tavolo da lavoro «cinetico, ingombro di enciclopedie, fascicoli, schedari, giornali. Si direbbe la scrivania di uno scienziato». La stessa cosa aveva scritto di lui nel 1959 lo scrittore britannico Aldous Huxley, nella prefazione a quella Inchiesta a Palermo per cui l’autore venne processato: «Danilo Dolci è uno di questi moderni francescani con tanto dilaurea». E aveva sostenuto che a un Gandhi dei tempi moderni non può bastare il cuore, ma occorrono anche studi, competenze e specializzazioni.
Per questi motivi risulterà inclassificabile. Un «autore in piedi», che cercava di «fermare l’attenzione su fatti pubblici e visivi», cercandone però contesti e nessi. Come? Inventando «il nuovo linguaggio» che dava la parola agli invisibili. Ancora una volta fu una nota dei servizi segreti, chiamati a vigilare sul «sedicente digiunatore», «pseudo scrittore», «noto agitatore politico», «autore ateo e pornografico», «lo squilibrato Gandhi di Sicilia» (tutti appellativi di cui vi è traccia nei verbali delle prefetture) a rivelare la scandalosa verità: «Fa parlare pescatori e braccianti con le loro parole», annotarono gli 007 quasi con stupore.
Per Dolci era una fatica. «Un parto», arrivò a definirlo. Si trattava di stabilire un ponte tra quei dialetti aspri, non fatti per comunicare, e la lingua corrente. Dapprima sollecitava i suoi interlocutori, poi chiedeva il permesso di annotare, infine consegnava il tutto a Goffredo Fofi, collaboratore di Dolci sin da ragazzo, perché battesse a macchina.
Già apprezzato poeta, agli inizi dei ’50 aveva vissuto nelle comunità di don Zeno Saltini, ma il ricordo di un casuale viaggio del ’41 nella siciliana Trappeto lo porterà a trasferirvisi nel ’52. Vi approdò con Carlo Levi. Erano i tempi in cui il banditismo diventava mafia, alla vittoria del Blocco del Popolo alle regionali siciliane del ‘47 era seguita la strage di Portella, i sindacalisti contadini venivano trucidati. Lui scrisse Fare presto (e bene) perché si muore e fondò un asilo nido. Nel ’55 uscì per Laterza Banditi a Partinico. Nel gennaio ’56 il primo digiuno collettivo di mille persone a San Cataldo, in febbraio lo “sciopero alla rovescia” in uno stradone abbandonato. Cariche della polizia e detenzione nel carcere dell’Ucciardone.
Vennero infine Inchiesta a Palermo e i nuovi processi. Dolci divenne un caso internazionale: da Sartre a Fromm, da Russell a Huxley, il mondo della cultura si schierò con il Gandhi della parola.