Corriere della Sera, 28 giugno 2024
Intervista a Maria Paolo Marloni, parla di suo padre (il re dei frigoriferi)
Suo padre Vittorio Merloni prima di avere successo con gli elettrodomestici ci prova fabbricando gabbie per polli.
«Si mette a fabbricare gabbie per polli durante gli studi universitari. Ma – racconta la figlia Maria Paola – è un’iniziativa per pagarsi le corse in auto, dato che mio nonno Aristide non lo finanziava. Finita l’università entra nell’azienda paterna a Fabriano, che all’epoca costruiva bilance per il bestiame».
All’inizio tutto rischia di saltare per colpa di un altro grande marchigiano, il presidente di Eni Enrico Mattei.
«Mio nonno aveva ottenuto da Mattei un importante ordine per la fabbricazione di bombole del gas. Ma ad un certo punto interviene il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che chiede a Mattei di dirottare l’ordine sulla Nuova Pignone. Mio nonno si era indebitato e vedendo sfumare l’accordo gioca l’ultima carta: invia mio padre da Mattei».
Come finisce?
«Papà fa anticamera per ore e non ottiene niente. Il confronto è tra il figlio di un piccolo imprenditore di provincia e Mattei, all’epoca già figura mitologica. Si aggiunga la frustrazione di tornare con la coda tra le gambe e dire al padre che non c’era stato nulla da fare. Il colpo di genio per evitare il fallimento è di mio nonno, che converte la produzione e realizza con i fusti delle bombole degli scaldabagni. È l’avvio dell’attività nel settore degli elettrodomestici, prima gli scaldabagni, poi, le cucine a gas, e a seguire i frigoriferi, le lavatrici e così via».
Da giovane somigliava a Romano Prodi, è vero che faceva scherzi, lasciando credere di essere il professore bolognese e viceversa?
«Si divertivano a creare piccoli inganni. Il professore è stato, insieme a Luigi Abete, uno dei migliori amici di papà. Hanno fatto tanti viaggi insieme con le mogli, ma dedicavano anche intere giornate all’analisi delle strategie aziendali da adottare. Quando a papà venne proposta la guida di Confindustria chiamò Prodi per valutarne i pro e i contro. Era consapevole che avrebbe sottratto tanto tempo alla sua attività».
Nel 1980 diventa presidente di Confindustria dopo Gianni Agnelli e Guido Carli. Per molti è uno sconosciuto imprenditore di provincia.
«Papà viene eletto e rappresenta la nuova generazione di medi imprenditori che non aveva niente a che fare con il triangolo industriale Torino-Milano-Genova. L’inizio del mandato è titubante, nel giorno dell’assemblea da neo eletto indossa, addirittura, un vestito sbagliato perché il sarto gli ha consegnato i pantaloni di un altro cliente. Nei mesi seguenti si dimostrerà fortemente convinto della sua missione e delle sue idee».
La sua Confindustria disdetta l’accordo sulla scala mobile e diventa un obiettivo delle Br. Aveva paura?
«Un giorno a Genova appena sbarcato dall’aereo gli addetti di polizia, pensando di rassicurarlo, gli dicono: “Non si preoccupi siamo organizzati, abbiamo anche il laccio emostatico!”. Questo era il clima. Scampò di poco il sequestro: un uomo della sua scorta era un basista delle Br. Mio padre aveva un’agenda che cambiava di continuo, ma fu insospettito dalla richiesta di condividere i suoi spostamenti. La polizia scoprì che le Br avevano un basista e che volevano sequestrarlo».
Il presidente del Consiglio Spadolini non gli perdonò la mossa sulla scala mobile e di averlo messo in difficoltà con sindacati e Pci. Fecero pace?
«Dopo qualche tempo Spadolini venne ospite da noi in Sardegna e si riconciliarono, ma sul momento la prese come un affronto personale. Mio padre ha sempre ripetuto che la scala mobile generava inflazione e nessun beneficio per lavoratori e imprese».
Cosa le disse quando anche lei, come suo zio Francesco e suo nonno Aristide, venne eletta in Parlamento?
«Testuale: ricorda che non ci vai per una tua visibilità, ma a rappresentare chi ti ha votato».
Mai sfiorato dall’accettare candidature?
«Mai. Glielo hanno chiesto un po’ tutti, inutilmente».
Conosceva Berlusconi dagli anni 70. Ne fu deluso politicamente?
«All’inizio ne riconobbe i meriti e il coraggio di scendere in politica, dopo ne rimase deluso. Una caratteristica di papà era fare le cose e poi, nel caso, raccontarle».
Nel 1997 si decide a passare il testimone in azienda, prima tocca a Francesco Caio, dopo ad Andrea Guerra. Con chi aveva più in sintonia?
«Piccola premessa: per lui fare un passo indietro e cedere le deleghe è stato molto difficile. Di Caio aveva grande considerazione. Con Guerra aveva più confidenza, era in azienda fin da giovanissimo, lo ha nominato amministratore delegato trentenne».
Quando Guerra se ne andò in Luxottica la prese male?
«Mio padre seppe che stava trattando con Del Vecchio e per lui fu una delusione. Non si riappacificarono».
Cosa lo rendeva fiero?
«L’acquisizione della Indesit nel 1987, perché comprò un’azienda molto più grande della Merloni Elettrodomestici. Un’altra soddisfazione è stata rendere il gruppo una multinazionale con stabilimenti in Inghilterra, Portogallo, Turchia, Russia e, ovviamente, l’Italia».
Un elettrodomestico preferito da suo padre?
«Scherzando ho sempre detto che il frigorifero è stato il mio fratello maggiore. Papà ha amato moltissimo noi quattro figli, ma la passione per i frigoriferi era pari».
Aveva un tratto mite e un’invidiabile capacità di farsi ben volere. Possibile che non si incavolasse mai e non fosse capace di tipiche durezze da imprenditore?
«Non ricordo di averlo mai visto adirarsi. Se qualcosa non andava si chiudeva in silenzio e per scaricare la tensione giocava al solitario».
Una grande delusione?
«Un suo rammarico è coinciso con la triste fase della sua malattia. Aveva capito che l’azienda doveva affrontare un ulteriore passaggio di crescita e stava trattando con Whirlpool per acquisirne la divisione elettrodomestici. In quel momento non aveva più la forza e la tenacia necessarie, questo è stato forse il suo rammarico. Poi nel 2013 abbiamo noi venduto a Whirlpool».
Se non si fosse ammalato Indesit Company avrebbe avuto un destino diverso?
«Sì, assolutamente».
Chi erano i suoi amici?
«Ha avuto grande sintonia con un gruppo di amici composto da Diego Della Valle, Enrico Mentana, Luca Montezemolo, Peppino Turani e, come detto, Abete, che gli è stato vicino fino all’ultimo».
Eravate quattro fratelli, è stato severo?
«È stato esigente, cercando di responsabilizzarci e facendo in modo che fossimo sempre impegnati e attivi. Ci ha coinvolto in azienda ma senza mai troppa convinzione, l’azienda», dice sorridendo, «era sua. Noi figli non avevamo il diritto di lavorare in azienda, bensì il dovere di dare continuità all’impresa».
Aveva preferenze?
«Era un po’ maschilista. Io ho avuto con lui un rapporto unico: ci siamo voluti tanto bene e ci siamo molto divertiti insieme. Aveva grande ammirazione per la capacità di guardare i numeri di mia sorella Antonella, ma poi si divertiva davvero molto con i due maschi. L’unico rimprovero che gli si può muovere è di avere rifuggito il passaggio generazionale. Credo non volesse scegliere uno di noi».
L’Alzheimer è stato il suo grande nemico finale.
«Un neurologo gli diagnosticò la malattia, ma all’inizio non disse niente. Ci ha convissuto dieci anni. Nella prima fase di debolezza girava intorno ai concetti, mascherando così i suoi inciampi. Come stratagemma ricorreva a un taccuino nella giacca e obbligava i suoi manager a fare lo stesso dicendo: “Poi vi dimenticate, quindi scrivete”. Poi la malattia ha avuto il sopravvento, costringendolo a ritirarsi dalla vita pubblica».
Un ricordo indelebile.
«Il suo sorriso contagioso che trasmetteva tutto, ti pareva dire: “Io sto dalla tua parte”».