Il Post, 27 giugno 2024
Dove vanno gli insegnanti d’estate?
Qualcuno si chiede, fuori da ogni polemica, dove finiscono i docenti d’estate, dall’8 giugno in poi, dopo la chiusura delle lezioni per la pausa estiva. Li porta via un furgone o un vattelapesca? Migrano verso i paesi caldi? Si nascondono? Scappano col circo? Come sarebbe bello se qualcuno ci pensasse come Il giovane Holden pensava alle anatre, passando in taxi vicino al laghetto di Central Park.
Creature stanziali fino all’arrivo dell’estate, considerati spesso poco più di un arredo nel gran mastodonte chiamato scuola, a volte stimati, spesso dileggiati ma più spesso ancora ignorati. Quando arriva il caldo, come quando a New York arriva il gelo, con un battito d’ali sembriamo scomparire, volteggiare nell’aria verso i fantomatici “tre mesi di ferie” che tutti ci invidiano e per i quali molti ci disprezzano. Con logica ferrea il tassista risponde a Holden Caulfield che le anatre non vanno mai via, neanche quando il lago è ghiacciato: «È la loro natura! Stanno lì come i pesci, anche se non le vedi!» spiega. E così è per noi, perché è la scuola che ci abita, non noi che la abitiamo, e anche per lo stacco estivo nessuno se ne va mai davvero.
Questo inverno parti in crociera con MSC. Scopri l’offerta Happy Drink sul pacchetto bevande!Sali a bordoContenuto SponsorInnanzitutto non abbiamo tre mesi di ferie.
Fino al 30 giugno le scuole dell’infanzia funzionano normalmente. Gli esami di terza media si chiudono nella quasi totalità sempre il 30 giugno, compresi tutti gli adempimenti amministrativi e burocratici di fine anno. A seguire ci sono commissioni e attività per docenti impegnati in particolari funzioni, che li trattengono a scuola anche fino a metà luglio e più. I colleghi delle superiori hanno i giorni della maturità che si chiudono verso fine luglio e gli esami di recupero calendarizzati a fine agosto.
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Fotovoltaico: ecco il nuovo bonus 2024, verifica se rientriVIVINGREENI piani di scuola estiva che si stanno susseguendo per volere del ministero, dal covid in poi, sono una nuova modalità di lavoro che prende sempre più piede e che spinge molti docenti ad aderire alla gestione di percorsi di recupero o potenziamento o attività rivolte ai ragazzi fino a luglio inoltrato. La scuola come istituzione non chiude mai del tutto i battenti, le segreterie sono attive fino a ferragosto con i dirigenti e i collaboratori, a turno sempre presenti. La scuola è parte del mondo del lavoro: i dipendenti neo-assunti hanno diritto a 30 giorni lavorativi di ferie e dopo 3 anni di servizio, a qualsiasi titolo prestato, ai dipendenti spettano 32 giorni di ferie. I docenti sono lavoratori, non missionari, e hanno un normale diritto alle ferie che devono fruire però tassativamente in periodi vincolati dai calendari scolastici regionali per le lezioni, gli scrutini e gli esami di stato.
Se avessimo anche ali d’anatra, non potremmo mai volar via per un weekend in bassa stagione o per un viaggio di piacere fuori dai limiti del calendario scolastico. E allora perché le nostre ferie suscitano nell’italiano medio reazioni strane, ammiccanti, velenose, come quel tal cugino di mio padre che, complimentandosi per il mio ingresso in ruolo alcuni anni fa, mi disse che finalmente avrei goduto a sbafo di tre mesi di ferie «pagati dalle sue tasse»?
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Certo, c’è l’innegabile vantaggio delle ferie che combaciano con i giorni di chiusura delle scuole dei figli. Certo, la pausa estiva è condensata e generosa. Certo, nei giorni in cui alle elementari ci sono i seggi elettorali, la scuola si ferma. Eppure in base alla mia esperienza il docente non va in ferie: il docente agonizza. Le sue non sono proprio vacanze, è una convalescenza.
Chi insegna arriva alla fine delle attività scolastiche col fiato alla gola, letteralmente. I mesi di frequenza continuativa sono estenuanti. Insegnare a scuola non è un lavoro normale: richiede una concentrazione di umori, emozioni, fatica e scadenze completamente sbilanciata durante l’anno scolastico e che raggiunge a volte picchi di intensità impensabili. Le attività e l’impegno per progettarle, gestirle e portarle a termine – per chi ama il lavoro e lo fa con passione – non hanno un limite di spazio e di tempo. Anche per gli insegnanti volenterosi e sani occorrono diversi anni di pratica per riuscire a staccare la mente durante l’anno, almeno ogni tanto. Si rischia l’overthinking, il burnout.
In occasione dell’open day, dello spettacolo di fine anno, di quella gita particolare, della preparazione delle Invalsi, dell’arrivo di un nuovo NAI (gli studenti Neo Arrivati in Italia), di una rissa inaspettata l’ultima ora del venerdì… quasi ogni giorno il lavoro si prolunga nel weekend, nella sera, nella notte. E non si è davanti a un pc a inserire dati: si media, ci si accorda, si fa e si disfa, è come lavorare a un processo di pace internazionale senza arrivare mai a un risultato definitivo, soddisfacente. Anche quando si briga fino alle dieci di sera, il giorno dopo il lavoro viene smontato da un numero indefinito di variabili, imprevisti, avvenimenti indecifrabili che ti riportano alla casella di partenza.
La correzione dei compiti è snervante e continuamente oggetto di critica da parte di tutti, così come la preparazione di molte lezioni e la gestione di situazioni – già, le situazioni – perché insegnare è un lavoro che spesso assomiglia alla conduzione di una fattoria o alla gestione di un’emergenza alluvioni, più che a un normale lavoro intellettuale. Abbiamo anche responsabilità civili e penali, peraltro.
L’insegnante non è mai solo: nel suo studio (se ce l’ha) sono sempre presenti, a volte anche in simultanea, genitori, alunni, dirigente e colleghi, e qualche volta compaiono anche i pedagogisti Maria Montessori in persona e Jean Piaget che ti guardano storto; il fantasma del ministro di turno ti tira i piedi mentre dormi e ti sventola nel sonno normative di cui hai perso il filo e che ti chiederanno il conto domani, quando dovrai rifare qualcosa da capo. Anche in aula, pur senza telecamere, hai sempre chiaro che tutto ciò che dici e fai è sempre sull’orlo della gogna, e ci rimarrà nei secoli dei secoli: appeso al giudizio di qualunque entità abbia, avrà o abbia avuto a che fare con te.
L’asse portante della struttura psichica del docente è la gestione del conflitto e dell’imprevisto, quasi sempre in situazioni di emergenza, cosa come si può supporre non facile. Ogni giorno, per ore, il docente sta di fronte a provocazioni, obiezioni, si sforza di esercitare empatia, di trovare soluzioni a problemi che non poteva prevedere e che non hanno una procedura di gestione; non c’è una guida da seguire, né ordini a cui obbedire. Si improvvisa sul filo del rasoio, almeno fin quando non ci si sia ancora fatti le ossa sul campo. Abbiamo pianto tutti almeno una volta, sopraffatti dal carico.
Se il docente fosse un architetto, nel suo cantiere gli operai sarebbero sempre in rivolta, mancherebbero cemento e ruspa, e al termine di ogni giorno di attività verrebbe richiesto un resoconto dettagliato di ciò che è stato fatto in merito al progetto che andrebbe scritto di notte, ancora con l’elmetto in testa e la consapevolezza che la casa non sta venendo su come dovrebbe. Se il docente fosse un medico opererebbe gente non sedata, senza bisturi, senza poter fare radiografie e alla presenza di figure di controllo che esigerebbero ogni momento di essere informate sugli sviluppi, anche quando magari il paziente è morto.
È una condizione simile a quella di chi lavora nella sanità o in uno di quei settori di cura poco riconosciuti, poco pagati e poco stimati che reggono la struttura più profonda della società.