il Giornale, 27 giugno 2024
Intervista a Carla Perrotti
Carla Perrotti che sarà ospite (il 6 luglio) dell’UlisseFest, il festival del viaggio che quest’anno si tiene ad Ancona, è nata a Milano, è stata documentarista e ha una lunghissima esperienza di viaggi e spedizioni nei luoghi più selvaggi ed inesplorati della terra, dall’Amazzonia al Borneo, dalla Papua Nuova Guinea a numerose zone dell’Africa. Ma quello che l’ha resa famosa al pubblico mondiale è il suo incredibile feeling coi deserti. Ha una storia incredibile che l’ha fatta diventare la regina delle sabbie da quando, nell’ottobre del 1991, è stata la prima donna ad aver attraversato da sola con i Tuareg in Sahara il deserto del Ténéré in Niger a seguito di una carovana del sale. Poi sono seguiti altri viaggi in solitaria che hanno dell’incredibile. Giusto per fare un esempio entrata a far parte del «Sector No Limits Team», nell’ottobre del 1994. Ha portato a termine la traversata in solitario a piedi del Salar de Uyuni in Bolivia. Si tratta del più vasto bacino salato della terra, a 3.700 metri di altezza. E infatti, dopo aver attraversato un deserto in ogni continente, all’UlisseFest parlerà di «Sguardi oltre le dune».
L’abbiamo intervista per Il Giornale per farci raccontare il senso dei viaggi nel deserto. Qualcosa di diversissimo da quello che potremmo considerare turismo e che, infondo, non è nemmeno esplorazione o atto sportivo ma, piuttosto, un viaggio interiore in cui l’anima del viandante si specchia nel vuoto della natura.
Carla Perrotti come ha iniziato a viaggiare nel deserto?
«Io bazzicavo i deserti prima del 1991, io e mio marito facevamo documentari per Canale 5, avevamo seguito un paio di volte la Parigi Dakar, poi nel ’90 stavo facendo un giro di qualche ora con un dromedario. E standoci sopra mi è venuto in mente che non volevo più attraversare il deserto in macchina volevo farlo piano in un altro modo. Avevo già visto muovere le carovane del sale e mi aveva affascinato. Così l’anno dopo sfruttando dei contatti che avevamo in Niger sono riuscita a farmi accettare da una carovana del sale. E ho fatto questa attraversata da cui è partito tutto».
Le altre attraversate che ha fatto sono state in solitaria invece...
«Sì la prima con 17 tuareg e 200 cammelli. Era impossibile pensare di attraversare quel deserto senza guida. Lì è nato un grande amore. C’è un mondo dietro il deserto che è difficile raccontare. Poi sono entrata nel team della Sector e sono cominciate le solitarie come quella nel Salar de Uyuni in Bolivia».
È un deserto salato a 3.700 metri come ci si prepara ad una cosa del genere?
«Ho sempre avuto un preparatore atletico. Ho fatto un programma di allenamento in quota per tutta l’estate in Italia. Poi a 3.700 metri cambia rispetto alle alpi. Ma ci abbiamo lavorato moltissimo».
Com’è una giornata di marcia nel deserto. Anche se ovviamente cambierà da deserto a deserto.
«Una costante è la pausa diurna ci sono ore in cui non si deve assolutamente camminare diciamo dalle 11 alle 15. La sveglia è sempre prestissimo. Soste ogni ora, dieci minuti, per fare rotta sempre e bere. Io di norma avevo 25 kg di zaino e ne peso 53 quindi ogni 50 minuti è bene metterlo a terra. Va considerata anche quanto la sabbia ti faccia sprofondare questo porta un consumo calorico molto alto»
Ma perché avventurarsi in luoghi del genere?
«Non è mai stata la voglia di fare record. Essere la prima. Mi interessava il limite personale. Non per superarlo, il limite non va superato, si sposta. E nel deserto il mio limite mentale si è spostato davvero tanto per me. In sette deserti, uno per continente, ha continuato a spostarsi».
Cosa dà il deserto ad attraversarlo in questo modo a piedi?
«C’è un insieme di sensazioni. C’è una profondissima percezione del se data dall’essenzialità. Il silenzio la fatica dopo la difficoltà iniziale aiutano a trovare il proprio centro. Nonostante la fatica sono sempre tornata dai deserti stando benissimo. Questo non lo dico io l’hanno detto gli esami medici a cui sono stata sottoposta. Deserto non lascia un segno pesante ma piuttosto un senso di libertà assoluta. Ho sempre sentito il deserto come un abbraccio. È una cosa fisica fortissima. Si va con la testa con i muscoli. Non ho mai avuto voglia di finire la marcia gli ultimi giorni rallentavo».
Tornando alla vita normale il deserto manca?
«Ho fatto sempre fatica a riabituarmi ai ritmi della città. Dopo tre giorni nel deserto ero in sintonia. Tornando non è quasi mai come prima. Il deserto levi inutilità ed apparenza. Non è un caso se nelle religioni è il luogo dei mistici. Io negli anni ho accompagnato nel deserto molte persone normali per quella che chiamo desert therapy, ovviamente in viaggi meno impegnativi. Ma l’effetto è sempre lo stesso. Le persone cambiano. E poi ti dicono: ho bisogno di deserto».
Il lato meno romantico di questi fenomeni. Ormai persino le Himalaya sono bersagliate dal turismo di massa, con tutti i rischi del caso. Può succedere anche ai deserti?
«Allora a qualche deserto come il Wadi Rum in Giordania un po’ è successo. Ma i deserti sono enormi possono assorbire meglio di altri ambienti la presenza umana. Semmai è la politica il problema. Sono le tensioni politiche od etnico religiose che rischiano di rendere pericolosi o impraticabili certi deserti. E purtroppo ci si può andare sempre meno».