La Stampa, 27 giugno 2024
I romanzi viventi di Ginzburg e Didion
Anni fa, mentre andavo alla ricerca di riferimenti per intraprendere l’avventura della scrittura autobiografica, mi aggrappai istintivamente a Joan Didion grazie a quel che sapevo e amavo del suo lavoro, e iniziai a riscoprire l’opera di Natalia Ginzburg, che la scuola pubblica mi aveva restituito in maniera remota se non proprio ostile per i miei gusti da liceale. Non intuivo, nei brani di Ginzburg inseriti nelle antologie scolastiche, quell’intelligenza che le pulsa come un «vivido sangue», per usare un’espressione di Le piccole virtù. È stato un mio destino, questo: riscoprire le grandi autrici del Novecento italiano attraverso la traduzione dei loro romanzi e dei loro saggi in inglese, mentre ho accettato la lezione di Joan Didion in maniera inequivocabile e quasi messianica. Forse perché scriveva nella mia madrelingua, per quanto abbandonata, e mi arrivava in maniera rozza e inconscia. L’italiano di Natalia Ginzburg – che è stato per me una lingua di fragile conquista – mi intimoriva nella sua accessibilità. Mi sembrava un’autrice simmetrica, sicura dei suoi mezzi, mentre leggerla in traduzione me l’ha stranita e inselvatichita (oltre a ricordarmi che aveva letto veramente tanti americani). Formalizzai gli esiti di quel lavoro di ricerca e del mio rifugio in queste due autrici in un libro intitolato La straniera (La nave di Teseo), e devo averlo fatto in maniera così accanita che un critico scrisse che il testo andava a effettivamente a parare a metà strada tra Joan Didion e Natalia Ginzburg. Da allora, mentre quel libro si è sedimentato ed è diventato altra cosa e anche l’autrice che lo ha scritto mi risulta più inafferrabile poiché sono andati quasi smarriti i suoi intenti e i suoi propositi, resta una traccia su cui mi interrogo ancora. Mi pare che la cosa importante sia infatti quella strada: cosa c’è a metà del cammino tra Didion e Ginzburg? E cosa si sarebbero dette se si fossero passate accanto? È probabile che sarebbe emersa una curiosità misteriosa, la percezione di un odore conturbante, radicalmente diverso da quello emanato dalla propria scrittura, che le avrebbe spinte ad allontanarsi per il timore di compromettersi, pur riconoscendo la personalità dell’altra. Troppo distanti gli animali in cui si sono riconosciute e che possono fare da guida per orientarsi nel loro modo di intendere sia il metodo sia lo stile: Joan Didion ha dedicato molte pagine e metafore ai serpenti, e non a caso c’è un serpente sulla copertina di Play it as it lays del 1970, ma oltre a essere un riferimento simbolico, si può dire che la scrittura stessa di Didion sia rettile. Sinuosa, perfettamente disegnata, letale anche quando fa finta di essere assopita sotto il sole più aspro che riusciamo a immaginare. Un movimento elegante fatto di scatti nervosi. Il lupo di Natalia Ginzburg, invece: uno movimento dritto e austero, a tratti guardingo, che al deserto californiano di Didion contrappone le mattine d’inverno a Torino col loro «odore particolare di stazione e di fuliggine», eppure contiene una promessa di addomesticamento e non rifiuta l’affetto. Un lupo che segna anche metodo, non a caso l’autrice dichiarava: «A passi di lupo sono arrivata all’autobiografia», mentre per Didion il “personal essay” (racconto personale) era una una pelle che metteva e smetteva, alternandolo ai suoi bellissimi romanzi strattonati. Nella fiction di Didion, infatti, lo stile erotico e nervoso per cui è nota (per molti aspetti più tropicale che desertico), rischia di essere un ostacolo per l’avanzamento della trama e i suoi romanzi dedicati all’intrigo politico come Democracy e A book of common prayer risentono di uno sgambetto perpetuo tra stile e storia, mentre Ginzburg va dritta come un disgelo invernale, non ottunde ma svela attraverso la sua indole senza sprechi. Della prima ci intriga la mutevolezza, della seconda l’affidabilità: nei romanzi di Ginzburg si sente spesso l’avvicendamento di una stagione e si comprendono meglio le regole del tempo. E poi Didion ha sempre lavorato alla creazione di una mitologia personale, è stata la scrittrice da imitare per generazioni di scrittori, ma non ha fatto da levatrice ai testi altrui editandoli o traducendoli. È diversa la sicurezza emanata dall’animale che sa di muoversi da solo e rischia tutto in prima persona, da quella dell’animale che si avventura solitario ma sa di avere un branco alle spalle: nel caso di Ginzburg, l’Einaudi fino a un certo punto, il pensiero di sinistra, un lessico familiare così implicato con la storia del Novecento italiano. Eppure entrambe ai loro esordi hanno avvertito una crisi di impostura: Didion partecipando a lezioni di scrittura con un impermeabile troppo largo addosso in cui non alzava la mano e consegnava i testi in ritardo, rifugiandosi poi nel giornalismo; Ginzburg accettando timidamente stroncature, provando a sintonizzarsi con la sua voce in mezzo a un coro di innamorati, amici e critici importanti, con la paura di non essere ascoltata nella folla. Si tratta di percezioni di insicurezza diversamente risolte nella lingua. Nella prefazione di South and West di Didion, il critico Nathaniel Rich ricorda il suo stile ricco e opulento, che arriva quasi da una «distanza imperiale». Cesare Garboli formalizzava lo stile di Ginzburg ricorrendo al concetto di «povertà», insistendo sulla sua nudità ed essenzialità tangente a quella di Pavese o di Montale. Ma chi può dire quale pressione ha condotto queste autrici a rinchiudersi in un arsenale di armi da fuoco o a disarmarsi a ogni giro di frase. Se era una risposta precisa al mondo, o qualcosa di più ineluttabile e intimo. Entrambe hanno inventato donne diverse da quelle che sono state, anche se rischiano di essere ricordate di meno per questi atti di invenzione, soprattutto in una fase letteraria così affamata di vita privata e meno di vita immaginaria. Inevitabilmente implicate con la politica, di cui sono state osservatrici e nel caso di Ginzburg anche rappresentanti, se ne sono però sfilate preferendo il ruolo di scrittrice e romanziera a quello di intellettuale. Un ruolo basato sulla capacità di disertare la zona del pensiero obbligato per saltare a piè pari in quella dell’immaginazione e viceversa, senza rinunciare alla qualità dell’analisi o a pronunciarsi sulla crisi psichica del mondo. Attraverso questo movimento, entrambe hanno fatto perdere le proprie tracce sulla strada. Oggi, forse, Joan Didion e Natalia Ginzburg ci parlano più dall’aria. E più che indicare un percorso, sono diventate l’atmosfera che ci sta attorno.
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