La Stampa, 27 giugno 2024
Intervista a Paolo Rossi
Jannacci lo chiamava maestrino. Strehler gli diceva che più che un comico era un attore. Per tutti è un cantastorie. Lui si definisce un traslocatore: «Sono curioso della casa nuova ma il mio compito è anche dire: portiamoci dietro quei libri, quella foto del nonno, quel giradischi», dice alla Stampa. E anarchico, sempre e in tutto: amore, famiglia, politica. Alle ultime elezioni si è presentato con Alleanza Pace Terra Dignità di Michele Santoro e, per la prima volta dopo quarant’anni, è andato a votare. Ma non per sé: «La mia non era una candidatura ma una testimonianza. Coerentemente, ho messo una croce sul simbolo del gruppo».
Nel 2010, quando si candidò in Lombardia al Consiglio regionale per la Federazione della Sinistra, disse di essere rimasto a casa perché si era guardato allo specchio e non si era ispirato fiducia. Sabato 29 giugno, a Milano, parteciperà alla seconda edizione del festival “Satira che peccato!” organizzato da Fondazione Feltrinelli e diretto da Beppe Cottafavi, con lo spettacolo Meglio un fiasco trionfale che un successo cordiale. Il teatro è il suo grande amore, la sua casa. Ha fatto anche: fatto tv, cinema, un paio di Sanremo, dischi, documentari, casino, casini, tre figli.
E adesso?
«E adesso sono qua, sopravvissuto a un uragano».
Emotivo?
«No, c’è stato un uragano stanotte, a Firenze. Ora c’è il sole e me lo godo sulle scale della Santissima Annunziata».
È andato lì a pregare?
«No, ma ogni tanto lo faccio. E prego il cosmo, non Dio».
Cosa gli chiede?
«Non si prega per chiedere».
E per cosa?
«Per sfogarsi. Io non chiedevo nemmeno quando frequentavo l’oratorio, a Ferrara, nella piazzetta dove passavo la maggior parte delle mie giornate saltabeccando tra ragazze, pallone e preti, ne avevo conosciuto uno in gamba, che poi si era innamorato di una fedele e si era spretato. Ragazze, pallone e preti sono stati i punti cruciali della mia formazione».
Ha nostalgia?
«No».
Lei ama il suo pubblico?
«Non dico mai: mio. Il pubblico è sempre diverso».
Ricalcolo: ama il pubblico?
«John Cassavetes diceva che tutti gli attori vogliono essere amati: aggiungo che hanno il dovere di amare il pubblico, perché li mantiene».
Suona faticoso.
«Invece non lo è. Quando mi capita di non avere voglia di andare in scena, penso ai due mesi che ho lavorato in fabbrica e questo, insieme all’idea delle persone che escono e spendono dei soldi per venire a vedermi, mi fa tornare la voglia subito. E credo contribuisca a un’onestà che il pubblico mi riconosce».
Come sa che gliela riconosce?
«Perché continua a riempire il teatro. E, quando uno spettacolo riesce meno di altri, a quello successivo le persone ci sono lo stesso: hanno capito che quello precedente, più che un errore, era un tentativo».
C’è qualcosa di cui paga il prezzo?
«Di certo non della censura. Non ho mai fatto la vittima. Quando ci hanno censurato, ed è successo più volte, io me la ridevo, prima di tutto perché un po’ me la cercavo, e poi perché sapevo che, il giorno dopo, la fila in biglietteria sarebbe raddoppiata».
Lei ha detto che per far tornare i ragazzi a teatro basterebbe proibirlo.
«Ma certo. Il teatro è destinato a diventare illegale. Visto che quello tradizionale, ortodosso, è finanziato dallo Stato, per gli altri non resterà che la clandestinità. Sui palcoscenici tradizionali continuerà ad andare in scena ciò che risponde ai desiderata dei protocolli ministeriali, e che piace e compiace un pubblico di addetti ai lavori. A tutti gli altri non resterà che aguzzare l’ingegno, dare il meglio e raccontare le storie e i problemi di chi ha intorno, che poi sono anche i suoi».
Mettersi nei panni dell’altro ha a che fare con la recitazione?
«No. Non credo che esista il personaggio, che è una delle grandi truffe inventate delle accademie per spilare dei soldi agli studenti. I più grandi attori del mondo fanno semplicemente se stessi o nel migliore dei casi imitano il regista per farsi prendere da lui, come Mastroianni con Fellini».
Mi faccia un altro esempio.
«Faccio di meglio: le racconto una storia. Vera. Un giorno un attore che avevo scritturato mi disse: maestro, io questa cosa non la posso fare, il mio personaggio non me lo consente. Gli risposi: allora non stare a disturbarlo, la farà un altro. Un altro personaggio?, mi chiese. No, dissi: un altro attore. Mi chiese se lo stessi mandando via, gli dissi di sì e lui mi rispose che era una cosa da stronzo. Hai ragione, gli dissi, ma il mio personaggio me lo consente».
E lo mandò via?
«No, però perse la scena e la credibilità».
Le storie hanno sempre una morale?
Diffido di: proverbi, morali e consigli. Basta saperli prendere non come modelli ma come prova del fatto che tutto quello che ci succede è già capitato ad altri. Una regola del cantastorie è raccontare solo fatti che gli sono accaduti o che sente molto vicini, che gli sono particolarmente cari».
La giornalista Guia Soncini ha scritto che quando lei sale sul palco, si avverte subito il pericolo.
«È quello che voglio: dare l’impressione che può succedere di tutto, perché è vero. Ed è per questo che non recito per il pubblico ma con il pubblico, che così divide con me la responsabilità di cosa succede».
Come reagisce il pubblico?
«È spesso spaventato da quello che potrebbe fare».
È vero che non sappiamo più ridere?
«Una volta andai in vacanza in Polinesia. Quando dissi che facevo il comico, mi dissero: e voi avete bisogno di pagare per ridere? Scappai via».
La satira deve “fare male per fare bene”?
«Non sempre. La satira si deve adattare e vestire della storia che sta vivendo in quel momento».
Chi è il buon cittadino?
«Quello che si fa delle domande serie. E i comici aiutano a farsele».
È vero che stanno tornando la destra e la sinistra?
«Io più che a destra e sinistra credo al sotto e al sopra, cioè a quelle che un tempo si chiamavano classi sociali, e di cui non si occupa più nessuno perché è sparita la lotta di classe. Mi sembra che i movimenti di rivendicazione delle identità di genere sottovalutino questo aspetto: un conto è essere una ragazza ricca che può pagarsi gli studi e un altro conto è essere una profuga».
Le è dispiaciuto non essere stato eletto?
«Ma scherza? Ho ottenuto quello che volevo: che si formassero delle liste che avessero a cuore il tema della pace, e che venisse dato fastidio a quelli che la pensano come Orietta Berti».
Finché la barca va lasciala andare?
«Esatto. A me Orietta piace tantissimo. Una volta mi ha detto: vorrei cantare le canzoni dei giovani, ma non capisco che storie raccontino. Le ho detto: neanche io».
Una battuta su Meloni la farebbe?
«Non le darò mai questa soddisfazione».
La teme?
Nel mio mestiere niente mi deve spaventare, altrimenti come faccio a essere pericoloso?».
Cos’ha provato quando è morto Silvio Berlusconi?
«Dispiacere. Davanti alla morte bisogna levarsi il cappello, e poi lui è stato una parte non da poco della mia vita».
L’ultima volta che ha pianto?
«Dopo il derby Inter-Milan. Quando abbiamo vinto lo scudetto».
Silvio Orlando ha detto che prima i maschi erano sessuomani, e ora il #metoo li ha migliorati.
«Silvio Orlando non è mai stato sessuomane, quindi non so di cosa parla».
Lei invece lo è stato?
«Mia figlia dice che sono maschiettista, non maschilista».
Che significa?
«Che rimpiango le partite maschi contro femmine: mi divertivano. Il conflitto fa crescere, se è giocoso».
E del# metoo che dice, l’ha migliorata?
«Io son un po’ misogino ma per gioco. Tutte le mie ex mi fanno ancora gli auguri al compleanno e allora penso che devo essermi comportato bene, o almeno in maniera anarchicamente corretta».
Chi è un anarchico?
«Posso dirle cosa fa: esercita militarmente l’autodisciplina e il rispetto. Si impone delle regole senza pretendere che valgano per gli altri».