Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 27 Giovedì calendario

La storia di Marlene Dietrich e Jean Gabin


“Forza dirompente del cinema”. È il titolo dell’omaggio che la rassegna Il cinema ritrovato di Bologna dedica a Marlene Dietrich. Bello slogan, ma inferiore al suo oggetto. Nell’omaggio ci sono i film più importanti, tutti in copie restaurate. C’è L’angelo azzurro,ovviamente, che nel 1930 non fu solo un successo planetario ma anche il film che fece capire al mondo – grazie alle canzoni di Marlene – che questa nuova diavoleria, il cinema sonoro, poteva essere un giochino meraviglioso. Ma per capire come la definizione di “forza dirompente del cinema” sia riduttiva useremo due titoli apparentemente minori: il documentario Marlene Dietrich: her own song diretto nel 2001 da David Riva, figlio della figlia di Marlene, Maria Riva; e una selezione di home movies, di filmini privati che vedono la piccola Maria, la mamma e una serie di amici – Erich Maria Remarque, John Wayne, Douglas Fairbanks jr., James Stewart, Cary Grant, Jean Gabin – in vari momenti, sia privati sia pubblici, dal 1932 al 1942. Questi due film mostrano la vera Dietrich, una donna che ha fatto la storia: quella vera, non quella del cinema. E il link fra i due film è Jean Gabin, il grande attore francese.
Siamo nel 1941. Marlene vive negli Stati Uniti ormai da un decennio. È una cittadina americana ed è fieramente avversa al nazismo. Nel febbraio di quell’anno Jean Gabin passa clandestinamente il confine con la Spagna, abbandona la Francia occupata dai tedeschi e, come altri cineasti francesi, va in America. Hollywood lo aspetta a braccia aperte, è il più famoso e importante divo europeo. Ma non è un rapporto destinato a sbocciare: Gabin non parla inglese e disprezza Hollywood, non gli piacciono i film che gli propongono. Si è appena installato in albergo quando arriva una telefonata: “Jean, c’est Marlene!”, dice una voce in francese con lieve accento tedesco. Non si sono mai conosciuti, ma lei lo adora da quando l’ha visto inLa grande illusione di Renoir. È l’inizio di un grande amore. Marlene toglie Jean dall’hotel, se lo porta a casa, gli cucina i manicaretti tedeschi dei quali è maestra, lo inserisce nella vita mondana di Hollywood.
Dopo Pearl Harbor l’America entra in guerra, e Marlene con lei. Diventa amica di “Wild” Bill Donovan, il fondatore dell’Oss (Office of Strategic Services, il servizio segreto che poi diventerà la Cia), fa propaganda ai buoni di guerra, organizza spettacoli per le truppe, gira come una trottola. Gabin, da solo a Los Angeles, è stufo dell’ozio e del lusso: non vuole stare in America a girare film insulsi, vuole andare in Europa a combattere. E nell’aprile del 1943 torna in Europa per entrare nell’esercito francese di De Gaulle, che combatte a fianco degli Alleati. La guerra gli sembra meglio di Hollywood.
Intanto Marlene è la principale attrazione degli spettacoli per i soldati. Nel documentario Her own song racconta: «Non sonomai stata tanto felice come nell’esercito. Eravamo soldati semplici, avevamo il grado di capitano solo nel caso i tedeschi dovessero catturarci. Io lo trovavo stupido: visto che comunque non eravamo pagati, non avremmo potuto essere generali?». A un certo punto organizza un blitz: il 14 aprile del 1944, con i suoi musicisti, parte da New York per una destinazione segreta – per tutti, non per lei. Gli altri credono di volare sul Pacifico, ma lei ha ottenuto di andare sul fronte africano: sa che il reggimento di Gabin è lì, sa che lui, divenuto carrista, dovrebbe essere in una colonna di blindati francesi. Si fa dare una jeep con autista e percorre tuttala colonna: «Sono corsa da un carro armato all’altro gridando il suo nome. E all’improvviso, ho visto quei meravigliosi capelli sale e pepe! Mi dava la schiena – “Jean, Jean, mon amour!”. Si è girato, ha esclamato “merde!”, è saltato a terra e mi ha preso fra le braccia». I carristi francesi, riconoscendoli, applaudono. È la più grande scena delle loro carriere.
Marlene poteva andare in giro per la guerra a piacimento. Era inarrestabile e la sua fama le garantiva un notevole potere. Era con le truppe americane ad Aquisgrana, la prima città tedesca liberata. Quando Berlino fu conquistata, smosse mari e monti per entrare in contatto con la madre Wilhelmina, che non vedeva né sentiva dal 1941. In Her own song si vede un telegramma del generale americano James Gavin: “A very pleasant visit with your mother, she is fine”. Poco dopo ascoltiamo il sonoro della loro prima telefonata: l’Oss ordinò di registrarla e volle che le due donne parlassero in inglese, per capire cosa si dicevano. La mamma la chiama “Lena”. È un documento semplice e commovente. Wilhelmina morì poco dopo, felice di aver visto Hitler sconfitto. Marlene visse per un po’ a Parigi dopo la fine della guerra, e anche Gabin tornò a lavorare in Francia, ma non si videro più: lui le scrisse una breve lettera in cui sosteneva fosse meglio mettere fine alla loro storia. Marlene vinse la guerra, ma perse il suo Jean.