Corriere della Sera, 27 giugno 2024
Intervista a Isabelle Adjani
«Tutti abbiamo bisogno di un po’ di quiete, fra tanta violenza, di essere elevati e non buttati giù. La letteratura è un grande conforto», dice Isabelle Adjani, star del festival di Spoleto. Il 29 in I mormorii dell’anima legge frammenti dei libri che ama, dove riemergono desideri, solitudini, ferite del passato che hanno alimentato il suo talento.
Come ha scelto i testi?
«C’è il filo rosso di una storia universale, come una musica, un segreto che si può condividere solo nell’intimità di un teatro. Prenderò per mano il pubblico in un mio museo interiore, alla ricerca di ciò che mi anima come donna e come artista: Duras, Sagan, Laurens, Fleury…».
Truffaut, stregato da lei, la bombardò di lettere ardenti. Lei ne fu soggiogata.
«Truffaut era un grafomane. Scriveva forse con la consapevolezza che i suoi scritti sarebbero giunti ai posteri, le sue lettere e i suoi biglietti erano delicati come i suoi desideri e le sue ossessioni, e facevano parte del suo arsenale da seduttore e non accettava che gli si resistesse. Cercava di conquistarti con le parole, prima di possederti. Nel diario di Adele H. si ritrovano frasi rivolte a me. Avevo 19 anni e temevo il potere degli uomini. Per decenni noi giovani attrici siamo state condizionate da questo avvertimento: se non sei un oggetto di desiderio e se il regista non ha mire su di te, hai poche speranze di avere la parte. Truffaut mi affascinò col suo amore per il cinema, che mi ha trasmesso, ma la ragazza che ero a lungo ha resistito al suo fascino».
Sua madre non sopportava che lei si acculturasse.
«Lei era una cattolica bavarese, mio padre un algerino musulmano non praticante. Non avevano gli stessi codici per adattarsi alla società francese dove le classi sociali non si mischiavano. Mia madre chiamava mio padre Jim e metteva il suo secondo nome, Chérif, al posto del primo, Mohammed. Lui voleva impormi la sua visione, censurando la mia femminilità. Leggendo Racine trovavo una fuga verso desideri e passioni. Amavo i classici, pericolosi agli occhi di mia madre che si posizionava nella rivalità madre figlia per condannare la mia educazione sentimentale. Per i miei genitori, diventare attrice era l’annuncio di scandalo dato che si mettono a nudo le emozioni».
Lei a casa era vissuta come un tradimento…
«Sì, della famiglia e delle tradizioni. Mi sono ritrovata in un piccolo appartamento della periferia malfamata parigina, con genitori che non possono più dirsi ti amo e che non sanno dire ti amo ai figli. Sono stata un ostaggio della loro sopravvivenza. Leggevo romanzi di cui loro due avrebbero potuto essere i protagonisti. Lui aveva 18 anni, lei 25 e scapparono insieme, lei con il cuore a pezzi, lasciando due bambini piccoli e un ex marito dispotico. Poi papà, che lavorava in un garage, respirando fumi tossici si ammalò fino a diventare invalido, mamma non lavorava, mio fratello viveva in una delinquenza dolorosa che l’ha fatto sprofondare nella droga e nella psicosi. Ho sacrificato grandi film per la loro salute, che era la mia priorità. Diventai il loro pronto soccorso personale. Ma non ho potuto salvare nessuno. Con la psicoanalisi ho cercato di capire questo labirinto familiare. Sono cose che non avevo mai detto e che mi hanno segnata come attrice».
Nell’immaginario è l’eroina romantica e tormentata.
«Sono una romantica e ho interpretato donne pazze, ma non cada nel tranello di credere che un’attrice si confonde col personaggio. Ho amato e sono stata amata. I miei tormenti non sono più grandi di quelli di altre donne. Ho sofferto della perversione narcisistica di alcuni uomini, si perde molto tempo quando si sbaglia partner, e si perde la fiducia in sé».
Una volta disse che i registi sanno come far soffrire le attrici per ottenerne l’essenza dolorosa e profonda.
«Oggi in Francia sono metodi criticati e condannati. La scena del burro e l’esperienza traumatica vissuta da Maria Schneider nell’Ultimo tango di Bertolucci ha fatto scandalo ma soprattutto ha ferito l’attrice, che non aveva 20 anni, dato che le fu imposta all’ultimo senza avvertirla. La sua fiducia fu violata. E questo perché si vedesse il massimo della violenza predatrice. È uno degli esempi peggiori nella storia del cinema. È la gloria dell’incubo, o l’incubo della gloria, a filmare la sua sofferenza».
Cosa pensa delle accuse a Depardieu di molestia?
«Alcune donne lo hanno denunciato e io le appoggio nella loro ricerca di verità. Valeria Golino ha detto di essere stata rispettata da Gérard e lo stesso è successo a me, non ha mai avuto gesti inappropriati».
Lei abbandonò «Prénom Carmen» di Godard perché suo padre stava morendo.
«Andandomene non so se fui più godardiana di Godard. Nei pochi giorni di riprese, aveva un atteggiamento da seduttore, con gesti a volte al limite dell’osceno. Non esitava ad abbassarsi i pantaloni davanti a me, come se potesse avere un’attrazione sessuale. E la critica benpensante francese preferì fustigare me. Sì, mi sono assunta il rischio di non onorare l’appuntamento con l’uomo della Nouvelle Vague più venerato al mondo».
In che fase della vita è?
«Bisogna aspettare prima che mi ritiri in campagna. C’è l’mperativo di incarnare la bellezza imposto alle donne. Si rimproverò a Marilyn Monroe di essere troppo grassa e lo stesso succede a Kate Winslet, Monica Bellucci e Juliette Binoche. Dopo il MeToo, a 50 o 60 anni non si è troppo vecchie. Oggi i registi fanno bene ad aver paura di essere accusati di discriminazione».