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 2024  giugno 27 Giovedì calendario

Intervista a Ljuba Rizzoli

Che nome è Ljuba?
«Nelle lingue slave vuol dire amore. Il prete non volle saperne, e fui battezzata Maria Luisa; ma in famiglia mi hanno sempre chiamato Ljuba».
Sui giornali la sua data di nascita varia: 1935, 1939...
«Sono nata a Milano il 27 giugno 1932. Oggi compio novantadue anni».
Qual è il segreto della longevità?
«È un mistero. Decide il Padreterno. Il medico che mi visita ogni settimana mi dice: lei è la signora più sana di Montecarlo. Ogni volta spero che ci sia qualcosa negli esami; invece, niente».
Perché lo spera?
«Perché la mia vita è finita quando Isabellina, mia figlia, a ventitré anni si gettò dal settimo piano».
Perché accadde?
«Non l’ho mai capito. Forse per la sua fragilità. Qualcuno le aveva dato qualcosa che le aveva fatto molto male, la droga. Lei voleva uscirne. La portai in ospedale. Poi in un appartamento, al Montecarlo Park Palace. Era una domenica. Isabella piangeva, aveva parlato con un fidanzato che la faceva soffrire. Eravamo a letto insieme, guardavamo un film in cui una ragazza si getta dal balcone. Io ebbi come un presentimento e spensi la tv, ma lei mi disse: “Mamma, lascia, è il destino”. Le risposi: usciamo, ti porto al casinò, o in spiaggia. Avevo abbassato tutti gli scuri, la cercavo per casa ma non la trovavo, le dicevo “cantiamo” per ascoltare la sua voce, aprivo gli armadi, “ti nascondi ancora negli armadi come da piccola?”. Poi sentii la Croce Rossa. E mi ritrovai nella stessa scena del film che stavamo vedendo. Sullo specchio Isabella aveva scritto con il rossetto: “Mamma ti amo”. Scesi di corsa, i poliziotti tentarono invano di trascinarmi via. La mia vita è finita quando ho visto mia figlia, lei così bella, in quello stato. Ci vuole molto coraggio a fare come lei. Io quel coraggio non l’ho avuto. Rivedo la mia Isabella nei sogni, la porto a fare shopping, a ballare... Sogno anche mio marito, Andrea Rizzoli, che mi tradisce. Chissà perché, visto che mi amava tanto».
Come ne è uscita?
«Mi dissero di camminare. Anche Agnelli mi diceva: cammina, ti farà bene. Andavo a piedi fino a Nizza, ma non serviva a niente, anzi. Povero Gianni, anche a lui è toccato riconoscere un figlio, anche la sua vita finì allora».
Si è curata?
«Ho fatto sette elettrochoc. Non volevo più vivere. Non mangiavo e non bevevo, pesavo 39 chili. L’elettrochoc era l’ultima carta. Un dolore pauroso, allucinante, una cosa atroce. In sei mi legarono e mi fecero passare questa scarica elettrica nel cervello... Al risveglio mi sentivo dentro una buca nera. Il giorno dopo però cominciai a bere con la cannuccia, poi chiesi un po’ di marmellata... I medici erano tutti felici: “Benissimo! Funziona!”. E via un altro elettrochoc».
Funzionava davvero?
«Mi ha tolto la memoria. Non riconoscevo più casa mia. Incontravo amici, non li salutavo, e quelli si offendevano. Però evaporava anche la morte della mia bambina. Ancora adesso ci sono cose che mi sembrano avvolte nella nebbia. La mia infanzia invece me la ricordo benissimo».
Nella sua autobiografia Io brillo, scritta con Tiziana Sabbadini...
«Sa che quando arrestarono Matteo Messina Denaro trovarono il mio libro sul suo comodino?».
...Lei racconta di essere sfollata durante la guerra nel Pavese, poi nell’Alessandrino.
«Ricordo i partigiani appesi agli alberi. Impiccavano anche i contadini che li avevano nascosti, le SS vennero pure a casa nostra a cercarli, e mio fratello Roberto era partigiano... Per questo, quando ho visto Mussolini e la Petacci a testa in giù, non ho provato particolari emozioni».
Lei è stata a Piazzale Loreto?
«Certo. Con mio padre. Ho anche la foto».
Da ragazza subì una violenza.
«Studiavo a Voghera dalle scuole agostiniane. Il mio professore di scienze si era offerto di accompagnarmi a casa in macchina. Si fermò in un bar per offrirmi una cioccolata. Con la complicità della barista, mi chiuse in una stanza. Era la mia prima volta. Mi ammalai».
Cos’era?
«Gravidanza extrauterina, emorragie interne, infezioni. Fui operata dal padre dell’uomo che mi aveva violentata. Mi avvertì che molto difficilmente sarei potuta diventare mamma. Ma non dissi nulla. Mio papà era gelosissimo di me, pensi che quando mi presero a Miss Italia mi fece a pezzi il vestito e mi tagliò i capelli. Sarebbe stato capace di uccidere lo stupratore; e si sarebbe rovinato la vita».
Giovanissima, si fidanzò con il direttore di Tempo illustrato, Arturo Tofanelli.
«Arturo si era messo in testa di fare di me un’intellettuale: “Oggi leggiamo Poe, domani iniziamo Proust...”. Mi presentò Indro Montanelli, che mi adorava, e Curzio Malaparte, che non mi piaceva. Andammo nella sua famosa villa di Capri. Lui era agitato, nervoso, violento. Si chiedeva: Dio sarà così stupido da farmi morire?».
Perché Montanelli la adorava?
«Sosteneva che fossi la migliore padrona di casa mai vista. In effetti, ero capace di mettere venti persone a tavola senza un solo cartellino con i nomi. Li memorizzavo tutti, poi dicevo: onorevole qui, eminenza qua, principe là...».
Lei ha conosciuto l’Aga Khan.
«Avevo lasciato il direttore per il petroliere Ettore Tagliabue, che aveva una bellissima riserva di caccia e trecento cavalli. Aly Khan lo vedevo a Deauville, in Normandia. Uno zingaro miliardario, uno charme folle. Mi invaghii. Accompagnavo al maneggio la sua bambina, Yasmin, che aveva avuto da Rita Hayworth...».
Conobbe anche la leggendaria Maharani, la moglie del maharaja di Baroda, la più grande collezionista di gioielli al mondo.
«Comprai l’intera collezione all’asta. L’accordo con mio marito, Andrea Rizzoli, era che ci saremmo tenuti i brilli più belli, io li chiamo così, e avremmo rivenduto il resto. Rovesciai i tesori su un tappeto di velluto nero: una piramide alta quasi un metro di bracciali, anelli, collier, diademi...».
Perché le piacciono tanto i gioielli?
«Perché una volta Edda Ciano mi disse che i gioielli le avevano salvato la vita. Grazie a un sacchetto di brilli era riuscita a riparare in Svizzera e a sfamare i figli. Così mi consigliò: “Ragazza mia, non chiedere mai regali inutili. Solo pietre preziose. Anche da un carato; ma preziose”. La Maharani aveva un diamante da 75 carati...».
Come incontrò Andrea Rizzoli?
«Tagliabue era già sposato, il divorzio non c’era, e organizzò per me un matrimonio all’italiana: tipo quello tra Berlusconi e la Fascina. Era molto più anziano di me, i suoi cavalli vincevano il Gran Prix ma gli procuravano uno stress terribile, non doveva provare emozioni: riposo assoluto. Partii per il giro del mondo con tre amiche: Hong Kong, Singapore, Sidney, le isole Fiji... Al ritorno andai in scuderia, e non vidi Tagliabue».
Dov’era?
«A casa, ma lo stalliere mi implorò: “Non ci vada, c’è la Teresina...”».
Chi era la Teresina?
«La figlia di un groom di scuderia, che mio marito aveva fatto uscire dalla casa di correzione dopo una vita per strada. Ovviamente salgo sulla Giulietta bianca, mi precipito a casa, e trovo la Teresina che lo sta ringraziando, tipo Monica Lewinsky con Clinton. Mi allontano inorridita, vago sotto choc, cado in una piscina vuota. Picchio la testa, e mi risveglio al Neurologico. E lì incontro Andrea, in visita per un padiglione che voleva finanziare».
Com’era Andrea?
«Non bello, ma buono, dolce, intelligente. E sposato. Ma lasciò la moglie e andai a stare in famiglia, in via Gesù».
In via Gesù c’era anche il padre di Andrea, Angelo Rizzoli, il fondatore.
«Il cumenda. Io lo chiamavo il Rizzolino, come lui stesso si definiva. Uomo favoloso. L’avevo già incontrato in treno, mi aveva proposto di fare l’attrice, diceva che avevo il volto di Eleonora Rossi Drago sul corpo di Sophia Loren... Ma il cinema non faceva per me. Comunque il cumenda mi prese in simpatia. E poi avvenne il miracolo. Rimasi incinta».
Come scelse il nome?
«Agnelli mi disse: “Tua figlia deve avere un nome da regina”. Pensai a Teodolinda. Andrea disse no: “Con un nome così ammazzerà suo padre. Meglio Isabella”. E Isabella fu».
Con Agnelli ebbe una storia?
«Sono cose minori... Se succedeva, succedeva».
Questa sua risposta è destinata a diventare di culto. Marella però la bloccò all’ingresso della Leopolda, la villa degli Agnelli in Costa Azzurra.
«Avevo assunto Madame Eugénie, la governante che Marella aveva allontanato perché copriva i filarini di Gianni. “Potrei scrivere un libro” ci diceva sempre; poi non lo scrisse, Gianni si assicurò il suo silenzio comprandole una tabaccheria a Venezia. La nostra villa, sul promontorio di Cap Ferrat, era a due passi dalla sua, ma la vista era più bella: eravamo circondati dal mare. Ogni tanto vedevo arrivare Agnelli: si faceva preparare un pastis, chiedeva quali fossero le novità».
E Alain Delon?
«Eravamo a Megève, io e la mia più cara amica, Marina Cicogna. La sera sentiamo un fruscio e troviamo un biglietto sotto la porta: “Ti aspetto. Alain”. Ma chi delle due aspettava? Marina mi strappa il biglietto di mano, si veste e si precipita. Il mattino dopo Delon era infuriato con me, dovetti partire di corsa. Ma i troppo belli non mi sono mai piaciuti».
Regazzoni sì però.
«Ho sempre avuto una consuetudine con i piloti, da ragazza feci la curva parabolica di Monza con Fangio. Clay Regazzoni era il più charmeur. Un anno a Montecarlo disse: “Sto troppo bene qui con te, io alla corsa non ci vado”. E non ci andò! Clay sì era un signore, non come quell’Hamilton...».
Hamilton?
«L’altro giorno qui a Montecarlo è arrivato a tutta velocità e mi ha frenato a cinque centimetri dalla gamba. E non ha neanche detto sorry! Un cafone».
E la Fallaci?
«Il cumenda la considerava la più brava di tutti, ma quando seppe che Andrea l’aveva invitata da noi a Cap Ferrat si allarmò: “Tu sei matto, l’Oriana e la Ljuba insieme litigheranno ferocemente!».
Come andò?
«Lei era sfacciatissima. Faceva il bagno in piscina nuda, abbracciava Andrea, andava in giro con lui mano nella mano; e io ero gelosa. Una sera eravamo a cena al Pirate, e notai che Oriana puntava un ragazzo, Samir. “Guarda che quello lo devi pagare” la avvertii. Ma la Fallaci si impuntò e lo ebbe, gratis. Poi andammo tutti insieme nella villa di Von Karajan...».
Herbert, il grande direttore d’orchestra?
«Lui. Era una famiglia di nudisti, e ci invitarono a spogliarci. Andrea, suo cognato Mimmo Carraro, Nino Nutrizio, Giovanni Mosca erano imbarazzatissimi, e ottennero un postiche biondo al posto del costume. Oriana, felice, cominciò a ballare nuda a bordo piscina. Von Karajan era un mito in ogni senso, l’ho pure fotografato...».
E Alberto Sordi?
«Faceva ridere anche senza parlare. Al Pirate servivano la migliore bouillabaisse del mondo, se trovavi una spina potevi non pagare il conto. La sera in cui toccava ad Alberto offrire, si portò la spina da casa».
Un genio.
«Ma al casinò perdeva pure lui. Giocava al “trente et quarante”, puntava contro i perdenti; invano. Mi diceva: “Guarda Ljuba, De Sica sta a perdendo, andiamo a giocargli contro”; e De Sica cominciava a vincere. Un anno mi annunciò: “Sto perdendo troppo, devo fermarmi in villa da voi finché non mi rimetto in pari”. Alberto Sordi rimase a Cap Ferrat un mese e mezzo».
C’era pure re Fahd.
«Non era ancora re, soltanto principe. Ero a tavola con Attilio Monti, Terruzzi, Invernizzi e altri miliardari. Mandano me a prenotare il tavolo del baccarat, ma mi avvisano che è già riservato dall’erede al trono saudita, appunto Fahd. Il principe mi nota e mi invita a seguirlo, ma io reagisco: venga lui a prendere il tè a casa mia, domani alle 5».
Venne?
«Era già impegnato con la Begum, la moglie dell’Aga Khan. Venne il giorno dopo ancora. Il colonnello che lo accompagnava mi porse un pacchetto: c’era un brillante di Cartier, da ombelico. Risposi che non potevo accettare. Il colonnello si agitò moltissimo: “Signora la prego, lo prenda, se no il principe si offende...”. Mi ricordai di Edda Ciano. E lo presi».
La sua passione per i casinò è celebre. Camilla Cederna scrisse che una volta, finite le fiches, aveva gettato sul tavolo della roulette gli orecchini di smeraldo. È vero?
«Sì, ma per gioco, mica si potevano puntare gli orecchini... I croupier mi conoscevano, mi lasciavano gettare la pallina, dire rien ne va plus. Al casinò non si vince mai. Chi dice di poterlo fare scientificamente è uno stupido. Ma il denaro per me non è mai stato importante».
È vero che una volta vendette la sua Rolls Royce a Giovanni Borghi, quello dell’Ignis, per continuare a giocare?
«È vero. E lui me la rimandò, piena di fiori. Fu il suo modo per farmi un regalo. Erano begli anni. Andrea mi portava con il jet privato a fare il bagno in Grecia, a vedere la corrida in Spagna. Incontravi re Farouk e Federico Fellini, la sorella dello Scià e Silvana Mangano, Filippo d’Edimburgo e il torero Dominguin, forse l’uomo più affascinante che abbia mai conosciuto. Avevamo diciotto labrador, neri e color champagne... La rovina dei Rizzoli non fu la bella vita, tanto meno il casinò».
Quale fu?
«Il Corriere della Sera. Al tempo di Gelli, Calvi e della P2. Andrea lo comprò per coronare il lavoro del padre, del cumenda, del martinitt. Il Rizzolino sognava un quotidiano, con Montanelli, Afeltra, Granzotto andava a Parigi per studiare il Figaro, aveva già comprato le rotative per stampare “Oggi. Il giornale di domani”. Poi cambiò idea. Il Corriere era di Crespi, Moratti e Agnelli, che sarebbe rimasto. Ma Andrea non volle, preferiva essere un editore puro. Gianni mi disse: “Siete pazzi, un quotidiano è come fare un figlio ogni giorno”. Poi Andrea cedette il comando a suo figlio, Angelo, ma si raccomandò che non facesse amministratore Tassan Din. Quando lesse sul Corriere che il nuovo amministratore era Tassan Din, si sentì male. Morì di crepacuore. Ci portarono via tutto. Le undici ville di Ischia, lo yacht, il jet privato... Rimasero solo le briciole».
Lei non ha vissuto male neanche dopo.
«Le briciole di un miliardario sono comunque soldi».
In Costa Azzurra c’erano anche Onassis e Churchill.
«Churchill aveva il “black cat”, il gatto nero della depressione. Ed era pure lui ossessionato dal casinò. Mi diceva: io ho vinto Hitler, e non riesco a vincere alla roulette...».
E Onassis? Era volgare come si racconta?
«Tutt’altro. Aveva un sorriso da zingaro e un fascino adorabile. Salimmo sul suo yacht, il Christine, che era il nome di sua figlia. Ora lo vedo dalle finestre di casa mia a Montecarlo. Lo affittano ai turisti. I miei compagni di strada sono tutti morti».
E lei non teme la morte?
«Ma io sono già stata clonata. Antonio Grimaldi, il mio stilista preferito, ha organizzato una sfilata con ventiquattro miei cloni: ragazze giovani, collo alto, coda da cavallo, e per un giorno si chiameranno tutte Ljuba. Come se fossi già morta, e rinata».