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 2024  giugno 26 Mercoledì calendario

Intervista ad Achille Lauro

«Non riesco a fare a meno di tirarmi granate sotto i piedi». Achille Lauro, al secolo Lauro De Marinis, ha scelto un singolo spiazzante come Banda Kawasaki (niente a che vedere con la gang romana degli anni 70) per tornare sulle scene. Un brano urban molto poco rassicurante, inciso insieme a Salmo e Gemitaiz, in uscita venerdì assieme al videoclip.
Sabato 29 partirà l’Achille LauroSummer Fest – A rave before l’Iliade,
che proseguirà fino a settembre prima dei due eventi unici intitolati
Ragazzi madre L’Iliade – Il Live,il 4 ottobre a Milano e il 7 a Roma.
Dopo le tante suggestioni proposte negli ultimi anni, da che visione nasce questo nuovo brano?
«Negli ultimi tempi sono stato molto negli Stati Uniti, Los Angeles, New York e altri posti. Lì ho sviluppato una visione futurista, un po’ Jim Morrison che si schianta contro Travis Scott. Per la prima volta collaboro con Salmo e Gemitaiz, lo spirito che mi anima è simile a quello degli esordi, l’America mi ha aiutato a capire come sono diventato quello di oggi.
Il fatto è che nessuno riesce a ingabbiarmi, voglio sabotare la mia carriera».
A proposito di continui cambiamenti, qualche mese fa ha pubblicato su Amazon il docufilm sulla sua vita “Ragazzi madre – L’Iliade”. Non è un po’ esagerato il riferimento omerico?
«Mi piace pensare che sia una metafora del ritorno a casa. Anche a livello estetico sto cercando di unire il racconto omerico con la mia infanzia pasoliniana. Mettere insieme periferia e mitologia, un’idea avanguardista».
Restando sul suo passato, ha detto che non è stato facile farsi una cultura.
«Sono cresciuto in un ambiente in cui la cultura non è contemplata.
Quando vivi nel trauma tendi a normalizzare tutto, ma poi sono diventato allergico a certi modi, mi sono sentito una nullità. Questo mi ha acceso la curiosità, ho imparato a imparare dagli altri. La cosa più spaventosa era pensare di diventare una persona senza un posto nel mondo, senza una base. Ringrazio però di aver conosciuto quella faccia, a Roma c’è poesia ovunque, anche nella disillusione. È molto pasoliniana. Il fatto di aver messo insieme tanti generi e storie mi ha permesso di non avere ascoltatori casuali».
Nelle interviste tv sembra sempre annoiato.
«Strano a dirsi, ma non sono fatto per parlare davanti alle telecamere. Durante le interviste spesso non riesco a trasmettere quello che vorrei».
Farà il giudice a X Factor. Dopo le polemiche dello scorso anno, come pensa di affrontare il ruolo?
Ha detto che non c’è più spazio per la musica ruffiana.
«Cercherò di portare i miei valori nel programma. Tanti vogliono solo diventare famosi, ma io amo la musica e mi interessa trovare artisti anarchici, ascoltare qualcosa che mi travolga. Non colpevolizzo nessuno e niente ma a volte c’è della musica terrificante che è frutto di calcolo.
Per il resto è giusto essere rigidi, onesti, e poi dico sempre che bisogna imparare a fallire. Come giudice, non devo mortificare nessuno, con i ragazzi più autoironici si può provare a sdrammatizzare».
Bisogna azzardare, dice. I quadri viventi a Sanremo sono stati un grande azzardo.
«A un certo punto avevo pensato: ma chi me lo fa fare? Ma non mi pento, anzi».
Di un pezzo come “Mille”, così distante dal suo percorso, si è pentito?
«Non ero convinto. Quando hosentito il ritornello cantato da Orietta Berti ho capito che era un’immersione negli anni 60. È stato un esperimento di intrattenimento, ha avuto un successo spaventoso. E poi, ripeto, mi piace l’idea di non essere incasellabile».
E quando ha inciso “Me ne frego” non ha temuto di essere incasellato in una precisa area politica?
«Ho pensato che potesse passare per un inno fascista ma con me è difficile cadere in fraintendimenti di questo tipo. Era un inno alla libertà di essere chi si vuole, il contrario esatto di certi retaggi nostalgici».
Non a caso ha partecipato al concerto “Una nessuna centomila”, evento simbolo della lotta per l’emancipazione femminile.
«È una battaglia che deve coinvolgere tutti. Ho vissuto a lungo in un ambiente machista, sessista, questa è una lotta fondamentale.
Comunque, le persone in vista hanno il dovere di sostenere questecause: bisogna essere a favore. Punto».
Restiamo sui fraintendimenti. Si è discusso sul significato di “Rolls Royce”. Ma forse la frase chiave di quel brano era quel “di noi che sarà” e l’invocazione “tieni da parte un posto e ségnate ‘sti nomi”. Non è che tutta questa iperattività nasconde in realtà la paura della fine?
«Forse l’inquietudine di vivere. La bulimia del fare è un palliativo.
Quella frase era una preghiera laica. Credo c’entri l’essere romani, siamo super malinconici. Però Roma ti fa vivere in modo molto caldo, con intensità, l’amore, i dolori, la malinconia. A Roma devo tutto.
Lontano mi sono sentito solo, e riuscivo a trasformare in musica certi vuoti».
Come si vede tra dieci anni?
«Libero e pronto a gettarmi nel mondo senza rete. A gettarmi nel vuoto. Non voglio cadere nella trappola di pensare che il successo sia felicità. I miei obiettivi, almeno quelli, sono infiniti».