Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 26 Mercoledì calendario

L’analfabetismo visivo degli italiani

In una lettera inviata nel 1944 a Giuliano Briganti, Roberto Longhi invitava ad ampliare, nella scuola, «l’asfittico spazio concesso a quella storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione».
Non è andata così. Basta entrare in un’aula universitaria per misurare l’analfabetismo visivo della maggior parte degli studenti. Per tanti, Giotto, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Tintoretto e Caravaggio sono poco più che nomi. Balla, Boccioni e de Chirico sono come vessilli abbandonati in un accampamento deserto. E Burri e Fontana? Fragili echi ascoltati distrattamente. Il medesimo destino tocca ai maestri della fotografia e a quelli del cinema. Ghirri? Basilico? Jodice? E Fellini? Antonioni? Visconti? Rosi? Un Pantheon di giganti ignoti.
I ragazzi non hanno responsabilità. La colpa è di un sistema scolastico fermo, ancora profondamente novecentesco, d’impronta gentiliana, fondato sulla centralità della parola e su un’anacronistica diffidenza verso le immagini. È, questa, la ragione per cui da decenni la storia dell’arte, nei programmi scolastici, è relegata in una posizione marginale, laterale, periferica. Ed è, questa, la ragione per cui non si prevedono discipline che educhino alla fotografia e al cinema, nonostante l’Unione Europea insista sulla media literacy, base per una cultura contemporanea.
Questa colpevole rimozione risulta particolarmente grave in un Paese come il nostro, la cui identità si offre come spazio aperto, ibrido, poroso, attraversato da pratiche e da gesti, da forme e da stili, da storie e da iconografie. Un palinsesto nel quale, come aveva ricordato Carlo Levi, «tutto sta insieme, (…) ogni cosa rimane senza perdersi, (…) i secoli si sovrappongono e il pagano, il cristiano e l’arcaico e l’antico, il medioevale e il moderno, non solo stanno uno accanto all’altro ma coincidono, sicché ogni cosa è una ricapitolazione, una summa di tutte le altre». Si tratta di un patrimonio diffuso ed esteso, che è stato plasmato non solo dalla letteratura ma anche dalla storia dell’arte e dal cinema. L’Italia esiste perché è stata raccontata da Dante e da Leopardi. Perché è stata rappresentata da Giotto e da Piero della Francesca, da Leonardo e da Caravaggio, da de Chirico. E perché è stata filmata da Fellini e da Antonioni.
Da un governo impegnato a celebrare, non senza retorica, i fasti della Nazione ci attenderemmo una seria revisione dei programmi scolastici, che finalmente riconsideri l’importanza delle discipline visive, pensate non come dottrine a circuito interno né come momenti di intrattenimento, ma come decisivi baluardi civili, ineliminabili nella formazione delle generazioni future. Perché, meglio di altri, questi saperi suggeriscono un dialogo problematico con il reale. Fondamento della coscienza critica, offrono gli strumenti per «abitare» diversamente il nostro mondo; aiutano a collegare il concreto e il fantastico; delineano i confini all’interno dei quali geografie non contigue – storia, letteratura, filosofia, scienze e religione – pur salvaguardando differenze e specificità, si co-appartengono e scoprono finalità e significati comuni.
«La cultura di un periodo si costruisce con l’arte, non meno che con il pensiero scientifico, filosofico, politico, religioso», aveva sottolineato negli anni sessanta Giulio Carlo Argan. Il quale era stato animato da una precisa convinzione: in Italia, si dovrebbe considerare l’istruzione visuale come un investimento sicuro per l’avvenire. Solo attraverso lo studio delle arti i cittadini possono diventare davvero consapevoli della grandezza della nostra civiltà. Cogliere l’unicità dell’Italia. Comprendere la bellezza di una stratificazione plurisecolare: i frutti più alti del «nostro» talento pittorico, plastico e progettuale. E acquisire i mezzi per difendere il corpo di un patrimonio paesaggistico e architettonico martoriato, sottoposto a violenze senza rimorsi, esito di un’incultura generalizzata, di un’indifferenza delittuosa.
Perciò, sin dalle elementari, i nostri ragazzi dovrebbero imparare non solo a leggere e a fare calcoli, ma anche a «vedere». Potrebbero così cominciare ad associare arte, cinema, letteratura e storia.
Senza dimenticare che l’educazione visiva ha anche una cruciale funzione ecologica. Aiuta a muoversi in un’iconosfera costellata di icone di ogni tipo, riprodotte e moltiplicate in Rete e sui social. Fa orientare con maggiore cognizione in questo ininterrotto flusso, nel quale verità e menzogna si confondono. Infine, insegna a distinguere le immagini destinate a rimanere da quelle condannate a essere dimenticate e consumate. È quel che aveva scritto Martin Scorsese qualche anno fa: «I giovani devono capire che non tutte le immagini sono fatte per essere consumate come un dolce e poi dimenticate».