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 2024  giugno 26 Mercoledì calendario

Intervista a Mauro Di Francesco

«Io, Diego e Teo dividevamo la stanza in un hotel di Verona. Si era fatto tardi. E Teo era sparito».
Ti pareva.
«Salimmo al piano. Era chiusa a chiave. Convinti che si fosse imboscato con la bottiglia di vino che ci avevano regalato, io e Diego abbiamo cominciato a bussare forte. “Dai, facci entrare!”. Niente. “Piantala Teo! Vogliamo andare a dormire!”. Prendemmo a pugni la porta. Ancora silenzio. Tentai di buttarla giù con una spallata, ma rimbalzai contro il muro del corridoio. Allora ci si mise Diego, grande e grosso, e la porta crollò di schianto. Dal letto, una coppia di coniugi tedeschi ci fissava atterrita. Avevamo sbagliato camera».
Sembra la classica scena di un cinepanettone e in fondo lo è, considerato che i tre amici sono Teocoli, Abatantuono e Mauro Di Francesco, il “Maurino” di tante commedie all’italiana anni 80 e 90. Quello di Sapore di Mare 2, che sulla spiaggia di Forte dei Marmi scopre che la sua bella lo ha mollato e grida: «Te ne sei andata, Alina? E chi se ne frega!», ma piange dietro gli occhiali da sole, scena stracult. Oggi ha 73 anni e da un pezzo si è ritirato in felice ozio in Toscana. Basta film, basta tv.
Non si annoia?
«Scrivo, leggo e dipingo. Alle 8 faccio colazione al bar del paese, come i vecchi. Mi hanno cercato tanti, avrò detto almeno venti no. O chiedevo compensi assurdi. Spero sempre che mi chiamino Sorrentino o Tornatore, Pupi Avati, magari Quentin Tarantino, allora ci ripenserei».
A 15 anni già in teatro con Strehler, chissà che ansia.
«Mi divertivo come un matto. Ero basso, mi avevano fatto una corazza su misura, prima di entrare in scena me la spalmavano di sangue finto. Recitavo con Valentina Cortese, mi invitava nella bella casa di piazza Sant’Erasmo a Milano, voleva che facessi da maestro di vita per il figlio Jackie, viziato e imbranato. Lo portavo in giro. Ma restò così».
Tognazzi era suo padrino.
«Girammo Scusa se è poco con Monica Vitti. Loro due avevano i camerini vicini. Lei detestava l’aglio. Ugo, quel disgraziato, ne comprò una treccia e ordinò al segretario di soffriggerne qualche spicchio per tutto il giorno sul fornelletto, lasciando la porta aperta. Ero spesso a cena a casa sua. Mi propinò uova di non so quale pesce, orribili».
Gli anni del Derby.
«Con Abatantuono, Giorgio Faletti, Massimo Boldi, Giorgio Porcaro e Ernst Thole fondammo il gruppo dei Repellenti, ci battezzarono così Enzo Jannacci e Beppe Viola. Diego sul palco ce lo portai io. Era l’elettricista dei Gatti di Vicolo Miracoli. Doveva accendere un unico faro. Ma era sempre chiuso in bagno con qualche ragazza, così fu licenziato. “Dai, vieni con me”. Io ero Eva Kant e lui Diabolik. Andammo avanti per un po’, poi cominciò a fare il personaggio del meridionale e continuò da solo».
Succedeva la qualunque.
«C’erano Gino Paoli e Umberto Bindi, con i due pianoforti attaccati. Ispirato, Bindi intonò: “In un concerto dedicato a teeee”. Nel mezzo dell’acuto gli parte la dentiera e finisce sulla prima fila di spettatori. Si accendono le luci, i camerieri, carponi, cercano la protesi sotto alle poltrone. La trovano. Umberto la sciacqua in un bicchiere, se la rimette e riprende a cantare».
La presero per un bandito.
«Avevo una serata a Olbia, in Sardegna. Interpretavo un bambino terribile, con grembiulino e fiocco, ma che nella cartella aveva un vibratore, Playmen, un cartoccio di Pakistano Reggiano, una bustina con il talco, una pistola giocattolo. All’aeroporto mi fermano i carabinieri col mitra spianato. Ci ho messo un’ora a spiegargli che era tutta roba per lo show».
Rinunciò a «Sapore di Mare».
«Eh. Con Carlo Vanzina avevo già girato I fichissimi. Diventammo amici. Credo volesse darmi la parte di Jerry Calà. Ma Diego mi voleva per forza con lui in Attila il flagello di dio. A quei tempi eravamo molto uniti, come culo e mutanda. Ho scelto lui e Carlo ci è rimasto malissimo».
Non ci fece un affare.
«Attila fu una tragedia, andò malissimo. Cecchi Gori si era svenato per pagare il cachet di Diego così risparmiò sulle comparse. Per l’esercito dei barbari eravamo in sei, tra cui Franz Di Cioccio e Francesco Salvi. Diego si lamentava con Rita Rusic: “Tuo marito è un barbone, un tirchio”».
Rimediò con «Sapore di mare 2», senza i Vanzina.
«Per copione mi innamoravo di Pascale Reynaud e accadde anche nella vita. Stavo con Laura Belli, confessai il mio sbandamento ma tornai a casa. Lei però mi fece trovare le valige fuori dalla porta».
Guido Nicheli, il Dogui.
«Faceva l’odontotecnico e vendeva whisky. Avevo aperto un locale a Milano, il Mangia e Ridi, dove ogni vip aveva la sedia da regista con il suo nome, Alba Parietti, Christopher Lambert, Stéphanie di Monaco. Era sempre pieno. Il Dogui si presentava con il Neca – il cane – chiedeva un grosso bicchiere col ghiaccio, tornava in macchina, se lo riempiva di whisky e passava la serata senza spendere una lira».
Fece la spia.
«Raccontò a Jannacci che, mentre lui era in scena, io dietro le quinte, per ridere, mi abbassavo i pantaloni e mostravo le chiappe ai presenti. “Non si fa”. E mi sospese».
Facevate baldoria.
«Mica tanto, giravo un film dopo l’altro, la mattina alle sei dovevo stare sul set. Dormivo da nonna Violetta, che un giorno sulla porta mi lasciò un cartello: “Maurino, le chiavi sono sotto lo zerbino”, ottimo per i ladri. Però ricordo belle serate a Roma con Diego e Claudio Amendola».
Si dava da fare parecchio.
«Ho avuto un sacco di donne, mi sono divertito, ero giovane, carino, simpatico. Mica solo io. Teo piaceva molto, Diego pure, era bello. Faletti cuccava di brutto, attaccava a suonare la chitarra, le sfiniva così. Boldi no, aveva la sua Marisa, tutto casa e chiesa».
Un’avventura finita male.
«Mi ero ubriacato davvero, a una festa. Mi svegliò al mattino un maggiordomo di colore con giacca e guanti bianchi: “Signore, signore”. Mi voltai. Nel letto accanto a me c’era una vecchia, avrà avuto cent’anni, uno scheletro con Rolex d’oro e in testa un mocio. “Amore, vuoi la colazione?”. “No, no, è tardi, è tardi”. Saltai giù, recuperai i jeans dal pavimento e scappai».
Era successo l’irreparabile?
«Temo proprio di sì».