la Repubblica, 25 giugno 2024
C’era una volta il Sahael
Un’antica iscrizione nella casbah di Tangeri indica la sepoltura di Ibn Battuta, il suo cittadino più illustre. Vi era nato nel 1304, lasciandola poi giovanissimo per dedicarsi a una vita di esplorazioni in tutto il mondo, che ne fanno una specie di Marco Polo arabo. Viaggiò all’interno dell’Islam e oltre le sue frontiere, raggiungendo l’India, l’Asia Centrale, la Cina e poi documentando tutto nella sua Rihla (resoconto di viaggio). L’ultima avventura lo portò nel 1351 nel bacino del fiume Niger, dove rimase per due anni. È difficile ricostruirla sulla mappa, perché nel frattempo sono sparite le città, la desertificazione ha modificato il paesaggio, sono cambiati i toponimi. Ma una cosa emerge chiara dalle sue annotazioni: che nell’Africa sud-sahariana trovò imperi floridi e città sontuose, persino in grado di rivaleggiare con quelle arabe.
Oggi il Sahel è nei fatti off limits, nel senso che da alcuni anni, per colpa di un micidiale cocktail di golpisti, jihadisti e mercenari di varia provenienza, la fascia di paesi che va dalla Mauritania al Ciad è un buco nero da cui è meglio stare alla larga. Ma quelli che hanno avuto la fortuna di viaggiarci 30 o 40 anni fa, quando con un po’ di spirito d’adattamento ci si poteva avventurare nei suoi recessi più profondi, ricorderanno sparsi qua e là nellabrousse, nel deserto o all’interno di città dai nomi mitologici come Agadez, Chinguetti o Timbuctù, i segni inequivocabili della grandezza passata: opere monumentali in terra battuta, grandi centri carovanieri, quartieri in stile sudanese cinti da muraglie di creta, e poi antichi minareti, torri e palazzi di una bellezza scandalosa.
È in ragione di questo passato sempre immanente che le classi dirigenti, gli intellettuali e le forze migliori di questi paesi a sud del Sahara hanno sempre reclamato un trattamento paritario nelle relazioni internazionali. Prima di un’Africa sud-sahariana islamizzata dagli Arabi e poi cristianizzata e colonizzata da inglesi e francesi, c’era stata un’Africa sud-sahariana africana, che dopo l’anno Mille aveva generato imperi come quelli Songhai, del Ghana o del Mali, le cui meraviglie lasciavano senza fiato i viaggiatori. Ed è quest’Africa ancoraafricana che i resoconti di Ibn Battuta riescono a restituirci, aiutandoci a immaginare il Mali, il Niger e la Mauritania per quel che erano veramente, prima che la distruzione dell’antico li rendesse dei simulacri.
Partiamo dal Mali, il Paese del leggendario impero del Ghana, ricco di oro e pietre preziose. Nel 1324 il mansa Musa partì da qui per la Mecca, con un seguito di 60000 tra funzionari, soldati e schiavi. La sua ricchezza era sterminata, si narra che giunto al Cairo, dopo aver attraversato il Sahara, riversò così tanto oro nei bazar che il suo valore in Egitto diminuì considerevolmente. Ma basterebbero l’epopea di Timbuctù e della sua università medievale, oppure quella di Djenne con la sua immensa moschea di creta, o ancora quella delle centinaia di piroghe che da Gao, seguendo il corso del Niger, trasportavano il sale in tutta la regione, per ricordarci di cosa erano capaci questegrandi civilizzazioni africane in un’epoca in cui la rete degli scambi economici e culturali tra il Sahel, il Mediterraneo e l’Oriente era più intensa di adesso.
E poi c’è il Niger, la cui storia antica è la storia del popolo Songhai, i pescatori del fiume. La loro civiltà, come quella degli altri popoli che lo abitano, è poco conosciuta, ma i segni sono sparsi un po’ ovunque. L’iconico minareto di sabbia di Agadez tanto per fare un esempio. Ai suoi piedi oggi i trafficanti radunano i clandestini che partono per l’Europa – lo mostra Garrone nel suo Io capitano – ma un tempo era il simbolo del maggiore snodo carovaniero ai margini del grande oceano di sabbia. E poi le capitali fantasma dell’Air, le cupole color smeraldo di Zinder, i reperti archeologici ed etnografici del museo nazionale di Niamey, tra i più interessanti di tutto il continente.
Ma è soprattutto quel che resta delle antiche biblioteche sperdute nei deserti di Mauritania, dalle parti di Chinguetti, a ricordare la gloria passata. I volumi, a migliaia, arrivavano con i dromedari da tutto l’Oriente, e venivano stipati in palazzi di sabbia nel cuore delle oasi. Opere filosofiche, Corani miniati, testi di matematica e astronomia provenienti dalla favolosa Baghdad degli Abbasiti, quella di Harun al-Rashid e delleMille e una notte. Ora Dio solo sa che fine abbiano fatto questi testi inestimabili, la cui conservazione richiede cure continue. Spero corrisponda al vero quanto si legge su certi siti, secondo cui sarebbero almeno in parte custoditi da privati: poiché i jihadisti che da anni infestano quelle zone non hanno certo fama di essere dei bibliofili. E pensare che a leggere ilresoconto di viaggio di Ibn Battuta, si capisce immediatamente che sette secoli fa i musulmani intransigenti come lui non erano sempre benvoluti nel bacino del fiume Niger. E non tanto perché i notabili locali temessero un’invasione marocchina, che difatti si verificò due secoli dopo, ma perché non è che fossero proprio in sintonia con la legge islamica. Ibn Battuta si sorprende ad esempio che alle donne fosse permesso di girare in casa mezze nude, che non venissero segregate dai loro mariti, si stupisce della loro libertà di movimento e di quella sessuale. Più in generale Battuta è costretto a prendere atto dell’orgoglio identitario, dell’attaccamento alle tradizioni, e specialmente dell’insofferenza da parte locale nei confronti degli stranieri che osavano dare lezioni non richieste. Ora solo l’arroganza occidentale poteva arrivare a considerare paesi e popoli del Sahel come poco più che relitti coloniali, senza passato né radici. La verità è esattamente l’opposto. E cioè che la loro è una grande storia persa nel tempo, sepolta sotto la sabbia e la savana. Che potrà tornare alla luce solo se questi paesi saranno capaci di una grande rinascita sociale e culturale, prima ancora che politica ed economica, e solo il giorno in cui riusciranno a liberarsi da golpisti, terroristi, speculatori, e da tutti quelli che continuano ad assillarli e a depredarli. In passato ci hanno pensato arabi ed europei. Oggi, jihadisti a parte, sono russi e cinesi a riempire il vuoto lasciato dall’Occidente. Ma perché le mosche volino via – come dice un proverbio mauritano –bisogna prima che la piaga guarisca.