la Repubblica, 25 giugno 2024
La tribù degli Hemingway
Ci vuole davvero tanto coraggio a fare lo scrittore se di cognome fai Hemingway. Sì, proprio come lui, il maestro de Il vecchio e il mare o Per chi suona la campana. Eppure suo nipote John Patrick non soffre l’inevitabile confronto: «Questo poteva accadere quando avevo venti o trent’anni – dice – Poi ho capito che quella era comunque la mia strada, che non potevo certo competere con uno dei più grandi scrittori del Novecento, ma le mie storie volevo raccontarle lo stesso. Ed è stata la scelta giusta».
John Patrick risponde dalla sua casa in Florida. Parla un ottimo italiano, ha vissuto a Milano per una ventina di anni e considera l’Italia come la sua seconda casa: «Del resto lì sono nati i miei figli e poi noi Hemingway con il vostro Paese abbiamo un legame indissolubile. Nonno Ernest cominciò a fare il giornalista proprio a Milano, poi venne chiamato alle armi e rischiò di morire per lo scoppio di una granata che lo investì in pieno. Si salvò soltanto perché tra lui e l’ordigno c’era un soldato italiano che gli fece da scudo. Altrimenti non saremmo qui a parlare». Tra qualche giorno il nipote di Hemingway sarà a Lignano Sabbiadoro per consegnare i riconoscimenti ai cinque vincitori del premio intestato al grande scrittore americano. E sarà anche l’occasione per parlare del suo ultimo libro appena uscito negli States.
Che storia racconta in Ron Echeverría. A Miami story?
«È il sequel del mio precedente noir. In quello c’era una gang di no-vax che prendeva di mira un gruppo di medici. Qui, il figlio di uno di loro, cerca di vendicare il padre. Ma non tutto va per il verso giusto e finisce per essere invischiato in una storia di droga, conflitti a fuoco, sangue e sesso. Ingredienti che non possono mai mancare».
Miami, Lignano Sabbiadoro. Sembra un accostamento azzardato, ma nel 1954 suo nonno approdò in laguna e se ne innamorò. La chiamava «la piccola Florida d’Italia».
«Beh, lui abitava in Alabama e lì c’è un clima simile a quello italiano. E quindi a Lignano, dove trascorse una vacanza nell’anno del Nobel, aveva ritrovato le sue condizioni ideali. Senza contare che quei posti gli hanno sempre ricordato la sua giovinezza, gli inizi, la formazione di un giovane uomo che si apprestava a diventare un gigante della scrittura».
Lei è nato nel 1960, suo nonno morì appena un anno dopo. Non può avere ricordi diretti, ma quando ha cominciato a capire di essere il nipote di uno dei più grandi scrittori del Novecento?
«Direi intorno ai 13-14 anni. Abitavo con suo fratello, mio zio, dalle parti di Miami Beach e lì trascorrevo le vacanze. Cominciai a leggere i suoi libri e non mi fermai più: certo, ero ancora un ragazzino e certe sfumature le ho apprezzate soltanto più avanti, quando ho riletto tutto. Ma quell’estate capii quanto fosse grande, sia per quello che raccontava che per come lo faceva. Ernest Hemingway riusciva a toccare le corde dell’emozione come nessun altro».
La figura di suo nonno è avvolta nel mito. Ma lei, in un toccante memoir pubblicato nel 2007, ha raccontato che in realtà dietro la leggenda c’era una realtà ben diversa. Quel libro si intitola Una strana tribù. Memorie di famiglia. Ecco, che strana tribù era quella degli Hemingway?
«Ernest è stato dipinto sempre come un macho che piaceva alle donne, grande cacciatore e pescatore, senza macchia e senza paura. In realtà era un uomo timido e insicuro, molto lontano dall’immaginario collettivo. Soffriva di depressione clinica, si curava con l’alcol e questo non faceva altro che peggiorare le cose. E man mano che io crescevo, mi sono reso conto che anche mio padre aveva dei problemi. Gli stessi problemi».
Suo padre si chiamava Gregory, Hemingway lo ebbe dalla seconda moglie Pauline Pfeiffer. Si sposò ma presto si rese conto di essere bipolare e dopo anni di travestitismo decise di cambiare sesso…
«Ernest e Gregory erano molto simili fisicamente, condividevano le stesse fragilità, ma anche le stesse passioni ed entusiasmi. E infatti litigavano spesso, come dimostrano alcune lettere che ho pubblicato in quel memoir. Mio nonno ha sempre cercato di capire le donne, il link che scatta nel rapporto con gli uomini, le emozioni che produce. Altro che macho. Mio padre, che era un medico, quel link lo ha ricercato non attraverso le parole ma con il suo corpo».
Anche Gregory soffriva di depressione.
«È una costante degli Hemingway e infatti la storia della famiglia è costellata da suicidi. Il padre di Ernest si tolse la vita, Margaux che faceva l’attrice, ma anche una sorella di mio nonno. Lei pensi che mia madre era schizofrenica: non so come sono riuscito a schivare la genetica…».
E quando suo padre le annunciò che sarebbe diventato una donna, lei cosa gli disse?
«L’ho presa nell’unico modo possibile per non impazzire: con l’umorismo. Gli risposi: “Ma io una mamma ce l’ho già, che cosa me ne faccio di un’altra?”. Però ho sempre rispettato le sue scelte. Anzi, quel libro è stato un atto d’amore verso di lui. Non volevo descrivere Gregory come un uomo perfetto, non lo era. Aveva dei problemi, ma cercava di fare del suo meglio per essere all’altezza del proprio padre».
Aver pubblicato Una strana tribù è stato un modo per esorcizzare il dolore?
«No, il dolore resta. Un libro non può cancellarlo».
E allora perché l’ha scritto?
«Perché volevo capire davvero mio padre. La sua vita, le sue scelte. E per farlo dovevo capire anche mio nonno. Erano due facce della stessa medaglia, come se fossero una persona sola».
Lo so, è una domanda stupida, ma c’è un libro di suo nonno che preferisce, che ha segnato la sua vita, che l’ha convinto che scrivere potesse essere anche la sua strada?
«Non è facile scegliere tra tanti capolavori. Io direi Addio alle armi che avevo letto prima di venire la prima volta in Italia. Poi sono andato a vedere quei posti ed è stata un’emozione intensa, impossibile da spiegare».
Dica la verità, quanto le dispiace non aver potuto vivere qualche anno in più con suo nonno?
«Posso dire di avere imparato a conoscerlo dalle parole di mio padre. Certo, quei racconti spesso sembravano leggende, ma cosa vuoi pretendere da una strana tribù come quella degli Hemingway?».
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