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 2024  giugno 24 Lunedì calendario

I sei mesi di Milei: bilancio in surplus, ma povertà e crisi

Nei sei mesi trascorsi dalle ultime elezioni politiche in Argentina, che hanno visto l’affermazione dell’anarco-capitalista Javier Milei, il Parlamento non è riuscito ad approvare nessuna nuova legge. La Legge Omnibus, un insieme di 664 articoli con cui il neoeletto presidente voleva cambiare immediatamente volto all’economia argentina, si è arenata pochi giorni dopo la sua presentazione, avvenuta all’inizio del dicembre scorso. Ripresentata con l’appellativo di legge di base (ley bases), in una forma ridotta a 232 articoli e ammorbidita per venire incontro alle richieste degli alleati e dell’opposizione “dialogante”, sta avendo un percorso travagliato: la prima versione approvata dalla Camera ad aprile è stata ulteriormente modificata per ricevere l’approvazione del Senato, conseguita solo pochi giorni fa in mezzo a numerose proteste e scontri di piazza. Ora aspetta di tornare alla Camera per l’approvazione definitiva.
La ley bases, che resta l’unica legge inviata finora al Parlamento dal presidente, consentirà la privatizzazione di una decina di imprese pubbliche, riformerà il mercato del lavoro rendendolo più flessibile, meno tutelato e riducendo il potere dei sindacati, introdurrà una serie di agevolazioni fiscali e doganali per le grandi imprese estere che decideranno di investire in Argentina e soprattutto garantirà per un anno al presidente la possibilità di legiferare in modo esclusivo, quindi senza passare dal Parlamento, su una serie di tematiche di natura amministrativa, economica e finanziaria. Così, sebbene abbia dovuto ammorbidire le proprie pretese, Milei si sarà assicurato la possibilità, almeno per un anno, di continuare senza troppi impicci a smantellare parte dell’apparato pubblico, come ha iniziato a fare con la decretazione d’urgenza.
L’eredità lasciata dalle precedenti amministrazioni non era certo delle più semplici. L’economia argentina era un disastro e lo è da decenni. Chi sia il principale responsabile è difficile dirlo. Il premio nobel Simon Kuznets diceva: “Ci sono quattro tipi di paesi: i paesi sviluppati, i paesi in via di sviluppo, il Giappone e l’Argentina”. Quello di Milei è il quarto esperimento liberista provato nel Paese sudamericano, e nelle tre precedenti esperienze (la dittatura militare, il decennio di Menem e le liberalizzazioni di Macri) il risultato è sempre stato il default: nel 1982 sul debito estero appesantito dalle spese militari fuori controllo, nel 2001 con la devastante crisi economica e finanziaria e nel 2020 dopo i cinque anni di sbornia finanziaria di Macri.
Anche le esperienze peroniste/populiste, però, non hanno avuto miglior successo con la ricerca di una maggiore redistribuzione dei redditi, che in assenza di un concreto percorso di sviluppo economico sono finite nel generare inflazione, pesando proprio sulle categorie sociali più deboli che avrebbero dovuto tutelare. Tra i “colpevoli”, poi, non si può non citare il Fondo monetario internazionale. Dal dicembre del 1958, quando per la prima volta l’Argentina chiese assistenza, il Fmi ha sempre avuto voce in capitolo a Buenos Aires, salvo il periodo che va dal 2006 al 2016 quando Néstor Kirchner decise di pagare il debito con il fondo e sottrarre il Paese al suo controllo. Anche l’ultimo default, giunto nel 2020, deriva da una serie di errori previsionali e di raccomandazioni sbagliate fatti dal Fondo, allora guidato da Christine Largarde, con la concessione del prestito da 57 miliardi: invece di risolvere la crisi dovuta alla fuga di capitali, l’ha amplificata rendendo impossibile ripagare il debito estero.
La straordinaria siccità degli ultimi tre anni, poi, ha fatto molti danni in un Paese rimasto a prevalente vocazione agricola: calo del Pil e delle esportazioni, aumento di povertà e disoccupazione. La grave crisi economica e l’aumento dell’inflazione ha fornito il carburante che ha spinto Milei alla Casa Rosada. Con i primi decreti il neo presidente ha bloccato la monetizzazione del debito con cui la Banca centrale finanziava lo Stato, ha riallineato attraverso una svalutazione del 100% il cambio del peso col dollaro eliminando il complesso sistema di cambi amministrati che aveva originato numerosi tassi di conversione paralleli. Ha poi ridotto il budget dello Stato e i trasferimenti alle amministrazioni regionali e sociali. Lo scopo di queste misure era quello di realizzare un aggiustamento economico che consentisse di riportare in surplus il bilancio dello Stato, distruggendo domanda interna e importazioni, in modo da generare un attivo negli scambi con l’estero. Questo avrebbe permesso di ricominciare ad accumulare valuta estera e rimpinguare le esauste riserve valutarie del Paese: a quel punto, controllando la svalutazione del cambio entro il 2% mensile, l’inflazione sarebbe iniziata a scendere. Il risultato di questi sei mesi è in linea con le attese: il saldo del bilancio pubblico è tornato in attivo e il Fmi si attende per l’anno in corso un surplus di circa il 2% del Pil; le importazioni dovrebbero scendere del 15% nel 2024 e il surplus con l’estero raggiungere i 5,5 miliardi di dollari. L’inflazione che nel mese di dicembre era arrivata al 25,5% mensile (+211% in un anno) è scesa fino al +4,2% di maggio e a fine anno è vista “fermarsi” sotto il 150% annuale.
Com’era facile attendersi,
però, la cura da cavallo di austerità ha avuto serie ripercussioni sull’attività economica. Il Pil, fino a prima delle elezioni atteso in crescita moderata, avrà un calo che il Fmi stima al 2,8%, ma che con buona probabilità sarà peggiore. La disoccupazione salirà di 1,5 punti giungendo all’8%, i salari reali saranno colpiti duramente dalla svalutazione di inizio anno, essendo già diminuiti del 13% nei primi sei mesi di governo Milei. Il tasso di povertà che prima delle elezioni raggiungeva il 40% è aumentato al 55% e quasi un quinto della popolazione si trova in povertà estrema. Non mancano certo le proteste anti-governative, ma la luna di miele sembra ancora in corso: i sondaggi danno ancora la metà della popolazione favorevole all’operato di Milei.
Terminata questa prima fase, va capito come ne uscirà il sistema economico: solo un rilancio produttivo che faccia crescere l’export e sostituisca parte dell’import darà all’Argentina una crescita equilibrata e che non consumi riserve valutarie, né produca inflazione. Un ampio capitolo della ley bases è destinato proprio a questo scopo, ma s’è già visto durante il governo Macri come sgravi di questo genere abbiano avuto scarso effetto. Nel frattempo si stima che, se va bene, ci vorranno ancora quattro anni prima di recuperare il Pil del 2023, anni durante i quali la popolazione argentina dovrà tirare la cinghia per non far ripartire i consumi, l’inflazione e le importazioni. Se invece va male il risultato non sarà molto diverso da quello che si è registrato con le tre precedenti esperienze liberiste.