il Giornale, 24 giugno 2024
Il pensatore Giorgio Agamben riflette sull’importanza dell’interpretazione dei testi
Un libro veramente grande è un libro che, per nutrire il nostro spirito, non ha nessun bisogno del nostro accordo o disaccordo. Per trovare un grande libro di solito dobbiamo disturbare i classici. Ma non è sempre detto che sia così.
Leggo le opere di Giorgio Agamben con una passione (anche letteraria) che raramente provo per un romanzo dei nostri giorni. Agamben è il più importante filosofo italiano e, mi sento di dire, uno dei più importanti al mondo. Non è un interventista, non fa dichiarazioni sui grandi temi, non cerca la visibilità. I suoi argomenti potrebbero apparire, al cospetto di altri, secondari. Ma più di ciò di cui parliamo, conta quello che diciamo.
Ho letto e riletto Lo Spirito e la Lettera, appena uscito (Neri Pozza, pagg. 110, euro 17). Il tema, l’interpretazione delle Scritture, potrebbe sembrare per specialisti. Ma così non è: si tratta piuttosto di un libro sul senso profondo di quell’attività umana fondamentale che è la lettura. Cosa significa veramente «leggere»?
L’atto di leggere ha una genealogia affascinante. Il problema di comprendere cosa ha veramente detto un autore si fa più urgente nella misura dell’importanza delle cose scritte. Se la tradizione greca e latina affida il problema soprattutto all’autorità di chi parla – sia esso oracolo o poeta o storiografo – quella giudaica e cristiana non può considerare sufficiente l’autorità (rabbi) poiché si tratta di stabilire con la maggiore esattezza possibile le parole realmente pronunciate da Dio. L’interpretazione dei testi si arricchisce così con i metodi della filologia, che vagliano i possibili errori dei copisti e comparano le diverse lezioni pervenute di uno stesso testo. Non ci si presenta davanti al Mistero senza aver dato fondo a tutta la nostra scienza. Il lettore è sempre chiamato a scegliere: come comportarsi di fronte a un passo particolarmente oscuro? Il commentatore può decidere di semplificare, ma è anche possibile accogliere l’oscurità (lectio difficilior) e muoversi con cautela e umiltà al suo interno, accettando perfino il fraintendimento come parte necessaria del cammino. Ma Dio ci parla per enigmi e per simboli, e una volta stabilito il testo migliore o meno improbabile è necessario accedere a un secondo livello di comprensione. «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» dice il salmo.
Milleduecento anni di tradizione occidentale stabiliscono nel numero di quattro i sensi in cui un testo sacro (ma anche un testo poetico) ci si offre: letterale, allegorico, morale e «anagogico» o «sovrasenso» come lo chiama Dante: ossia il senso spirituale. Henri De Lubac ha dedicato a questo tema una delle sue opere più straordinarie, Esegesi medievale. Ma, come detto, questi non sono temi per specialisti: si tratta di ciò che la nostra civiltà ci ha trasmesso sul senso di un’azione capitale come quella della lettura. Secondo un luogo comune, esistono tanti significati di un testo quanti sono i suoi lettori: il che non è vero, non fosse per il fatto che ogni singolo lettore può individuare molteplici significati o piani di lettura, e così via. Contro la tentazione di vedere in un testo (o in un’opera d’arte) quello che ci pare e piace, Dante, e con lui la tradizione occidentale, ricorda sempre che il senso letterale di un testo è quello fondamentale, e che tutto deve sempre ricondurre ad esso.
Un testo, insomma, è un’opera artigianale innalzata contro il caos. Ma i diversi piani di lettura oltre quello letterale, osserva Agamben, non riguardano più le parole del testo, ma le cose di cui il testo parla. In altri termini, la molteplicità di un testo, la sua capacità di dire più cose, non è tanto un problema testuale, bensì un problema antropologico.
Il mio vecchio professore Gustavo Bontadini parlava di «differenze antropologiche». Esistono uomini per i quali parole come «sostanza», «essenza», «esistenza», «simbolo», «apparenza», «divenire» hanno un senso e altri per i quali non ne hanno alcuno. Uno dei terribili personaggi di Cormac McCarthy lo dice chiaramente: «Questo è ciò che ti ha portato qui, ciò che vi porterò sempre qui tutti. Quelli come te non tollerano l’idea che il mondo sia piatto. Che non contenga niente all’infuori di ciò che si vedono davanti (...) Il vostro mondo vacilla su un muto labirinto di domande. E noi vi divoreremo» (Città della pianura, Einaudi 1999).
Con grande lucidità, anche Agamben ci conduce lungo questo sentiero. La lettura non è un atto per specialisti, o per addicted (diffidiamo del Libro come mitologia). Un testo scritto, come la nostra vita, ha senso a seconda delle domande che gli poniamo. Le nostre giornate possono essere piatte e non dire nient’altro da quello che dicono, ma possono – come scrisse Mario Luzi – popolarsi di allarmi, scuotendoci dal nostro sonno cinico.
Particolarmente acuta, in proposito, è l’insistenza di Agamben sul concetto di «figura». Che non è una similitudine: la cosa (raf)figurata può non coincidere con quello che rappresenta: Gesù è definito «nuovo Adamo», anche se Adamo non somiglia in nulla a Gesù. Il punto, scrive Agamben, è di «cogliere nel passato ciò che non è stato vissuto, restituirgli in qualche modo possibilità. Non si tratta qui soltanto delle possibilità generiche e astratte – i mestieri che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, le persone che avremmo potuto conoscere e non abbiamo conosciuto – ma anche e innanzitutto di ciò che è rimasto non vissuto mentre lo vivevamo. Se il presente è per definizione deciduo e inafferrabile, in ogni vissuto vi è un resto che permane incompiuto o non vissuto fino in fondo».
Questi sono gli «allarmi» di cui parla Mario Luzi. E questo è il senso vero della lettura, ossia restituire alla vita la sua dimensione spirituale, ossia: la sua possibilità di pienezza. Perché la spiritualità non è fatta di sogni o di fantasie e nemmeno di immagini religiose: è il diritto a vivere la vita nella sua pienezza.
Ma, come nota personale, vorrei aggiungere che è di questo che noi, oggi, abbiamo paura. La pubblicità ci presenta un futuro prossimo senza pensieri («pensieri anche no»), i tour operator ci vendono godimenti (crociere, pacchetti vacanze) ai quali la nostra coscienza non è convocata, e anche l’industria dei libri si appiattisce sull’idea del libro e della lettura come se fossero valori in sé stessi. Il mondo piatto che, secondo McCarthy, ci divorerà non è affatto brutto, è soltanto quello che è. È triste, ma non fa paura.