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 2024  giugno 24 Lunedì calendario

Intervista a Marina Abramovic

«I’m not God». Non sono Dio. Sollievo in sala. L’artista serba Marina Abramovi? esordisce così davanti agli studenti dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Quella frase, pronunciata con naturalezza durante la discussione su “quanto l’arte possa fare per cambiare il mondo”, allontana subito l’idea che i presenti hanno di lei. Donna di ghiaccio, performer senza limiti, guerriera dell’arte contemporanea. È tutte queste cose Marina Abramovi?, “nonna della performance art”. Ma sembra anche una nonna e basta, quando con le sue parole tiene a bada le paure altrui, lei che non sembra averne mai provate. Lei che la maternità l’ha rifiutata tre volte perché «sarebbe stato un disastro per il lavoro», perché «ognuno ha un’energia limitata, io avrei dovuto dividerla». Lo sembra anche quando chiede dove siano «la borsa e il mio bastone», avvolta nel suo vestito nero illuminato solo dallo smalto rosso che le brilla sulle dita. O quando chiede un tè caldo «ma rigorosamente con il latte», subito offertole dalla presidente dell’Accademia Paola Gribaudo e dal direttore Salvo Bitonti prima di conferirle il diploma onorario in “Tecniche performative per le arti visive”. La ricerca del latte viene interrotta solo dai fotografi. Abramovi? li accetta, ma vuole scegliere le inquadrature, lo sfondo, la luce. L’immagine, qualsiasi essa sia, è cosa sua.
Controlla sempre i fotografi come oggi?
«Questo è lavoro, mio caro».
Ha sempre tutto così sotto controllo?
«Mi piace il controllo. Anche sulle foto: non troppo vicino, non troppo lontano, e soprattutto voglio decidere lo sfondo».
Perché?
«Per me è importante cosa c’è nello sfondo. Ed è anche facile: voglio il vuoto».
Cosa significa il vuoto, per lei?
«Innanzitutto crea ordine. E non mi mischia con storie che non sono la mia».
Col suo successo, è difficile confonderla.
«Non ho tempo di pensare al successo, penso al prossimo lavoro. Sa, il successo va e viene, non è qualcosa di permanente».
Il successo non l’ha cambiata?
«L’ho incontrato tardi, per cui so gestirlo e non mi interessa. Mi avesse travolto da giovane probabilmente sarei andata in overdose».
E cosa l’ha cambiata?
«Il mio è stato un viaggio difficile, lungo 55 anni. Mi hanno cambiato tante cose».
Quali?
«La semplicità con cui vivo oggi è una cosa che si raggiunge attraverso varie esperienze che ti danno sicurezza. Da giovani c’è una componente di insicurezza che ti porta sempre ad aggiungere lavoro ad altro il lavoro».
È questo il consiglio a chi vuole realizzare i propri sogni: siate semplici?
«Non do consigli, ma non è il desiderio di successo che muove le persone. Ai giovani artisti, e forse ai giovani in generale, dico: seguite le intuizioni, non le mode».
Oggi, a 77 anni, non si annoia mai?
«Amo il mio lavoro. Lavorerò fino a quando non morirò».
Ha detto che le piacerebbe vivere fino a 103 anni?
«Mia nonna ha vissuto fino a quell’età. Ho la ferma intenzione di fare lo stesso, e di non smettere di fare arte».
Non ha paura della morte?
«Per nulla».
Non ha mai paura, lei?
«Di fronte a ciò che mi faceva paura, mi sono sempre detta: fallo e non l’avrai più».
Non aveva paura neanche del dolore?
«Ho passato vent’anni coi monaci tibetani per imparare la meditazione e un anno con gli aborigeni per imparare a non aver paura del dolore. Con loro ho capito che la mia vita e la performance sono la stessa cosa».
A Pesaro ha realizzato The life, opera di “realtà mista” che utilizza la tecnologia. Ci penserà l’Ai a renderla eterna, quando morirà?
«Volevo fare qualcosa di diverso, alla mia età. La realtà virtuale non faceva per me, ma questo tipo di “arte mista” sì. In The life ci sono anche se non ci sono, è possibile vedermi ma anche passarmi attraverso, sono come un fantasma. Lavorare con la realtà mista significa raggiungere una specie di immortalità».
La sua arte performativa senza di lei, però, non le sembra contraddittoria?
«Nell’arte performativa l’importante, oltre al corpo, è la concentrazione: a prescindere, se si vuole vivere una performance non si può farlo guardando l’orologio, il cellulare, facendo un selfie. Vale per l’artista come per lo spettatore».
Pare di capire che i social non le piacciano. Conferma?
«Non credo nei social. L’arte non passa per TikTok o Instagram. Certo la mia arte performativa è strettamente legata alla presenza fisica e all’esperienza mia e del pubblico».
Però i giovani possono arrivare a conoscerla da lì. Anche in questo caso è un male?
«No, ma ad esempio The artist is present al MoMa è stata un’esperienza difficilmente traslabile sui social. Sono stata seduta per mesi di fronte a migliaia di persone e da uno schermo non si possono vedere la vulnerabilità, la stanchezza, né notare le sensazioni di chi era di fronte a me. Chiunque doveva per forza guardarsi dentro. Col passare di quelle ore ho imparato la cosa più importante».
Quale?
«Il miracolo era aprire il cuore a chiunque fosse seduto di fronte a me. L’amore incondizionato. Quando mi sono alzata ho capito che non ero più la stessa. E questo amore che ho provato si riflette nella mia arte anche ora».
Non è un periodo difficile per l’amore incondizionato?
«Ci sono guerre ovunque, ci sono morti, c’è l’emergenza climatica. Sembra che l’umanità sappia solo odiare, a volte senza via di uscita. È facile farlo, protestare per tutto. Ma è più importante chiedersi: cosa posso fare perché le cose cambino? Gli artisti hanno questa responsabilità».
Ci stiamo davvero innamorando del nostro Pianeta, come ha detto di recente?
«Sì, e lo ripeto: dobbiamo smetterla di trattarlo come spazzatura. Impiantiamo positività e trasformiamo la negatività».
Cosa pensa degli attivisti che imbrattano monumenti e opere d’arte?
«Non mi piacciono quelle forme di protesta. Sa perché? Sono basate sull’odio. E le cose basate sull’odio sono inaccettabili, conta l’amore».
Ha qualche rimpianto nella vita?
«No, ho fatto le performance che ho voluto e ho vissuto la vita che volevo vivere».
Come risponde a chi non ama la sua arte?
«Con l’amore. Amo questa domanda e chi critica o non apprezza i miei lavori. L’arte performativa è immateriale e molti sono abituati a quadri e disegni. Ho attraversato muri (è il titolo della sua autobiografia, ndr) e ora viene più apprezzata di un tempo. Nella mia classifica dell’arte, la prima è la musica proprio perché è immateriale. Poi viene la performativa».
È tornata a Torino dopo tanto tempo, le piace?
«Torino è speciale. Una capitale dell’arte contemporanea e dell’arte povera».
Tornerebbe per una performance all’Egizio?
«Sarebbe una buona idea, è un posto magnifico. Però bisogna essere invitati».