Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 24 Lunedì calendario

L’eterno vizio delle grandi riforme che non raccolgono le sfide del Paese

Immersi nelle tragedie internazionali e in questa specie di terza guerra mondiale non dichiarata è giocoforza interrogarsi anche sui destini della nostra patria. Qui si recita l’ennesima versione della commedia sulle “grandi riforme”, iniziata con la famosa Bicamerale degli anni ’90 e che si sperava conclusa con il naufragio di Renzi. E invece eccola risorgere con “premierato”, da una parte, e “autonomia differenziata” (per cui si osa spendere il nome di “federalismo"), dall’altra. Sui motivi anche tecnici che rendono entrambe le riforme pericolose assurdità istituzionali, foriere di disastri anche socio-economici sono intervenuti in molti, tra cui, con un bel libro recentissimo, Stefano Fassina (Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord, Castelvecchi editore). Vorrei qui limitarmi a alcune considerazioni di ordine, detto con ironia, logico-filosofico.Il primo vizio è quello intrinseco a ogni idea di “grande riforma”. Si crede nell’assoluto primato del “cervello”. Risanato questo si finge che tutto debba procedere al meglio. Ma se il sistema nervoso manca, o se il nesso tra mente e corpo è saltato, il cervello più intelligente non farà muovere un solo dito. Non esiste Esecutivo, non esiste riforma di organismi politici che possano funzionare senza contestuale riassetto degli apparati amministrativi e delle norme che li regolano. I tentativi di operare in questo senso sono stati negli ultimi decenni occasionali e parziali. E se ne comprende bene il motivo: qui ti scontri con ogni sorta di ostacoli burocratici, blocchi corporativi, interessi consolidati di casta, centralismi di ogni sorta, tra cui, i peggiori, proprio quelli insiti nell’assetto attuale delle Regioni. Riforma dell’Amministrazione significa riforma di giustizia (altro che separazione delle carriere!), della scuola, della sanità pubblica, semplificazione e razionalizzazione di tutto il sistema dei rapporti tra Stato e cittadini. Mettiamo il Premier al comando – e poi? Dove sta la nave di cui è chiamato a fare il nocchiero?La questione si complica fino a diventare irrisolvibile nel caso che le “grandi riforme” procedano secondo prospettive del tutto contraddittorie. Il caso italiano è eclatante: da un lato una riforma che all’apparenza mira “semplicemente” a un rafforzamento dell’Esecutivo, ma che in realtà affonda le proprie radici culturali in un’arcaica concezione centralistica dello Stato – dall’altro, una riforma che sotto la maschera di un “regionalismo” più responsabile e attivo, divide il Paese ancora più profondamente e indebolisce di fatto qualsiasi “premierato” nazionale. Avremo un perfetto mostro bicefalo, come non bastasse contraddittorio all’interno delle sue stesse parti, poiché il futuro Premier rimane destinato a convivere col Presidente della Repubblica, e la Regione “libera e sovrana” con ogni sorta di apparato centralistico, rafforzato, se possibile, dalla figura del nuovo Capo di governo.Come si fa a non vedere la contraddizione? E come non riuscire a farvi leva da parte delle cosiddette opposizioni? Ancora una volta, contro le confuse pulsioni riformistiche che provengono da “nuove” leadership e contro le ormai decennali, più o meno mascherate o moderate, nostalgie secessionistiche, si levano i fronti della conservazione. Alle sgangherate istanze di “grande riforma” fa eco, nei fatti, l’aureo motto: “quieta non movere”, al movimentismo irrazionale la difesa, nei fatti, dell’ordine costituito. La sfida non viene accolta: sì, è del tutto pensabile combinare rafforzamento delle procedure decisionali e federalismo autentico. Ma soltanto con Assemblee parlamentari che, di fronte al Presidente, riacquistino centralità; soltanto con Regioni che, per dimensione e struttura, possano davvero assumere responsabilità di governo; soltanto con una Camera delle Regioni che ne regoli i rapporti e assuma funzioni precisamente distinte rispetto all’altra. Non solo è possibile contemperare il rafforzamento dell’Esecutivo, esigenza dettata dalla stessa crisi geo-politica che attraversiamo, con sussidiarietà, autonomia regionale, e, oltre ancora, riconoscimento della vitale importanza di attivi corpi intermedi per la vita della democrazia, non solo è possibile ma necessario. E invece, purtroppo non solo da noi, si procede inseguendo le distopie del Capo o, ancora peggio, mescolando queste con la giungla dei micro-centralismi regionali.Il compromesso tra leghismo e conservatorismo istituzionale produsse, ormai sono vent’anni, la riforma del Titolo V, con l’incredibile sovrapposizione di materie per le quali la “potestà legislativa” è concorrente. Quale Giudice decide sui conflitti fisiologicamente derivanti dalla stessa “concorrenza”? Materie di legislazione concorrente – vogliamo ricordarlo? – sono rapporti internazionali (sic!), istruzione, salute, ricerca scientifica, grandi reti di trasporto, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (sic!), e numerose altre, di pari o quasi rilievo. A chi su di esse spetta l’ultima parola, e cioè l’autentica potestà legislativa? Senza risolvere minimamente il dilemma, lo si spazza sotto il tappeto. E il tappeto, o foglia di fico, è oggi fornito dalla riforma del premierato.Non soltanto il combinato disposto di queste riforme denotanti impotenza politica, ideologismi e velleitarismi, renderà ancora più arduo affrontare il problema strutturale che minaccia a breve di soffocarci: son tutte riforme destinate a aggravare i conti pubblici, riducendo le risorse a disposizione dello Stato per affrontare il costo del debito, tale perverso combinato indebolirà anche il nostro Paese nei rapporti con gli altri dell’Unione in merito a politiche sociali, industriali, commerciali. Tutte appunto politiche “concorrenti”.Chi siederà al tavolo europeo di ogni trattativa – l’unico che su di esse conti? Stato e Regioni “forti” assieme? Con quelle “deboli” ad assistere buone buone? O lo Stato portavoce delle sole Regioni “forti”, quelle che si sognano capaci di autonomia? Su che scala si pensa oggi di poter essere “autonomi”? Su scala locale? È a questa scala che si pensa di “contrattare” con i gruppi oligopolistici planetari che determinano scelte economiche e industriali? Auguriamoci che la lezione della storia non debba essere troppo pesante per il Bel Paese. —