La Stampa, 24 giugno 2024
Orban, l’europeo scomodo
Tra le mani di Viktor Orbán il cubo di Rubik – che con la penna a sfera una delle invenzioni più note dell’Ungheria – è passato dall’essere una leggenda nazionale a un simbolo europeo. Il rompicapo su cui i ragazzi si cimentano da 50 anni richiede ingegno, creatività e pensiero strategico. Perfetto per il primo ministro magiaro che l’ha scelto come logo della presidenza di turno del Consiglio dell’Ue che l’Ungheria assumerà dal prossimo 1 luglio. A indicare la strada c’è il cubo a sei facce, e c’è un motto: “Make Europe Great Again”, evidente parafrasi dello slogan dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel 2016. Ma la grande Europa a cui pensa Orbán non è quella che ci aspetteremmo.
Budapest si affanna a rassicurare gli animi in subbuglio a Bruxelles, che già temono una presidenza votata all’ostruzionismo in un momento delicatissimo per le istituzioni europee, impegnate nella partita delle nomine dei vertici comunitari e poi dei membri della futura Commissione: «Agiremo come un onesto mediatore, e coopereremo sinceramente con le istituzioni Ue», dice il governo.
Ma l’Europa secondo Orbán non potrà che essere a sua immagine, così com’è l’Ungheria, una spina nel fianco di Bruxelles.
Il premier, che oggi alle 18 incontrerà la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per ora sembra destinato a rimanere in quello scomodo angolo europeo in cui è costretto dal 2021, quando abbandonò il Ppe prima di esserne espulso a causa della sula svolta antidemocratica e per le persistenti erosioni allo Stato di diritto. Dopo aver a lungo accarezzato l’idea – e la speranza – di entrare nell’Ecr, sfumata per il “no” di Meloni e del PiS polacco, il premier ungherese ha tolto il velo della diplomazia strumentale alle buone relazioni e, nella consueta intervista a Radio Kossuth, ha annunciato che, dopo Berlino, sarà a Roma per incontrare Giorgia Meloni, e mercoledì a Parigi da Macron. Germania, Italia e Francia: tre Paesi chiave prima di guidare il semestre di presidenza europeo. Il suo attivismo nelle ultime settimane è cresciuto anche perché, per il premier magiaro, le elezioni europee non sono andate bene. E l’ingresso nel Ppe dell’astro nascente dell’opposizione (di destra) ungherese, Peter Magyar, lo ha innervosito non poco.
Fin qui, tutto normale. Poi però Orbán l’escluso, ha attribuito a Manfred Weber il ruolo di “Belzebù”, sostenendo che il Ppe è una «coalizione per la guerra e la migrazione». Ursula von der Leyen è solo la sua «piccola chierichetta» e la coalizione dei «weberiani», starebbe attuando il cosiddetto “Piano Soros”, la teoria delirante che sostiene che filantropo statunitense di origine ungherese tenterebbe di inondare l’Europa di migranti per privare le nazioni europee della loro identità cristiana e nazionale. Per Orbán «i conservatori sono sempre più orientati a sinistra», e che dire di Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni: «La destra ha vinto in Italia, ed è guidata anch’essa da una donna», e «avremmo potuto creare il secondo gruppo più numeroso al Parlamento europeo. Ma poi ci svegliamo e scopriamo che le due signore non riescono a trovare un accordo».
E mentre per Orbán le porte di Ecr sono chiuse, giovedì potrebbe nascere un nuovo gruppo sovranista, guidato da Afd. Ma anche in questo gruppo non c’è posto per il suo Fidesz. A partecipare tra gli ungheresi potrebbe essere l’ancor più estremista partito Mi Hazank, accompagnato dagli spagnoli di “Se acabó la fiesta”, dai polacchi di Konfederacja, dagli slovacchi di Republic, dai romeni di S.o.S, dai greci di Niki e dall’eurodeputata di Reconquete, Sarah Knafo. Tutte formazioni che i partiti filo-Ue considerano alla stregua dell’illegalità.
Orbán ora sa che sarà difficile uscire dall’isolamento, nonostante le diverse posizioni in comune con, per esempio, Meloni. Ma esattamente come il cubo di Rubik, il premier ungherese non ha mai solo una faccia cui prestare attenzione. Quella più preoccupante è orientata a Est, tra le braccia dell’alleato Putin, ben felice di avere un piede nel cuore dell’Europa.
Con i fondi Ue in gran parte ancora bloccati, Orbán, stratega dei veti e dei ricatti politici aveva, negli ultimi due anni, trovato eccessivamente difficile difendere i suoi interessi al tavolo delle trattative a Bruxelles, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina e le sue posizioni già “ambigue” nei confronti della Russia. Quindi ha cercato un’alternativa in Mosca.
L’amicizia di Orbán con Putin è un abbraccio tra due “uomini forti”, nazionalisti, che condannano apertamente il liberalismo occidentale e hanno rimodellato i sistemi politici dei loro Paesi. Approfondendo le relazioni con Mosca, Orbán spera di dare all’Ungheria una voce pesante nel processo decisionale globale, quello che solo marginalmente – e a forza di “no” – aveva trovato nella Ue. Un’alleanza fatta di favori, come, ad esempio, i veti sui pacchetti di aiuti all’Ucraina, i ripetuti ostacoli all’ingresso della Svezia nella Nato e l’esclusione del patriarca Kirill dall’elenco delle sanzioni Ue. Ma quando si crede di aver risolto una faccia del cubo, ecco che spunta un colore che non dovrebbe essere lì. La strategia di Budapest sembra funzionare allo stesso modo. D’altronde, l’inventore della «democrazia illiberale» ha più volte spiegato che il gioco che fa con l’Ue non è che una «danza del pavone»: «Tre passi avanti, uno indietro, poi allarga e agita bene le piume colorate». Così Orbán stringe la mano a Putin, critica le sanzioni contro la Russia, ma poi le fa passare. Si oppone al sostegno all’Ucraina, ma strategicamente scompare al momento del voto. Tuona contro il blocco dei Fondi di coesione, ma riesce a forzare i pagamenti con i suoi veti. Così, dal suo secondo mandato, nel 2010, il leader di uno Stato di 10 milioni di anime con pochissime risorse naturali, è riuscito a imporre un modello manipolando a suo favore le regole del gioco.
La scommessa sarà scoprire se il talento strategico di Orbán sarà sufficiente a proteggere l’Ungheria dalle amicizie pericolose e l’Europa dalle “danze” troppo sfrenate