Corriere della Sera, 24 giugno 2024
Intervista a Francesco Anzelmo
Francesco Anzelmo ha quasi cinquant’anni e dal 2018 è direttore editoriale e generale della casa editrice Mondadori. Si può dire che è tra le figure più importanti del mondo del libro.
Che studi ha fatto?
«Mi sono laureato in filosofia alla Cattolica di Milano con una tesi su Roland Barthes, era un corso di studi molto solido e impegnativo».
Com’è avvenuto il primo incontro con l’editoria?
«Grazie ad Antonio Riccardi, che già lavorava in Mondadori. Mi chiese di fare una ricerca su un episodio accaduto alla fine degli anni 50 a Sesto San Giovanni, la mia città: la presenza di una rana-toro gigantesca e spaventosa in una palude di periferia. Sembra una leggenda ma è una storia vera: come fosse arrivata dalle Americhe è un mistero».
Cominciò alla Bompiani?
«Sì, da stagista. C’era Elisabetta Sgarbi e per quasi un anno lavorai con lei: fu un’esperienza intensa (ride). Elisabetta lavorava 24 ore su 24 con un’intensità incredibile».
Quali figure la colpirono?
«Già avevo avuto modo di conoscere Giuseppe Pontiggia. Impressionava la densità di sapienza e di meditazione sulla scrittura».
Lo consiglierebbe come esempio di scrittura?
«Nati due volte, dove Pontiggia tratta in forma narrativa il suo rapporto con il figlio disabile, è un libro che ho continuato a regalare a chiunque mi chiedesse un consiglio su come scrivere».
Perché è così eccezionale?
«Per la consapevolezza e la forza nella trasfigurazione di un’esperienza personale che diventa universale. La letteratura è questo. E poi una riflessione molto attuale sull’uso di un lessico politicamente scorretto, una sorta di morale della scrittura».
L’esperienza in Mondadori com’è cominciata?
«Sono arrivato agli Oscar, dove il referente era Riccardi. In casa editrice c’era anche Antonio Franchini per la narrativa italiana. Di lui mi ha sempre stupito il fatto che accompagnasse la sua attività editoriale con una disciplina fisica quasi da samurai. Ne faceva anche un motivo formativo per i giovani editor».
Gian Arturo Ferrari era il capo supremo?
«Tra me e lui c’erano almeno tre livelli gerarchici di distanza. Si sapeva, è ovvio, della sua esistenza. Ma lo vedevo di rado…».
Chi le insegnò il mestiere?
«Il primo magistero, di stile prima ancora che editoriale, è stato con Riccardi: è un fine poeta e letterato, di grande gusto. Poi ho conosciuto altre grandi personalità, tra cui Ferruccio Parazzoli».
L’editoria è fatta di nomi non necessariamente notissimi, ma fondamentali, che lavorano nell’ombra.
«Uno di questi era Giancarlo Bonacina, l’editor di narrativa straniera che ha acquistato tutti i grandi autori: da Salman Rushdie a Zadie Smith. Abitando qualche anno a New York, entrò in contatto diretto con la narrativa maggiore».
«Gomorra» di Saviano è nato sotto la sua regia?
«Fu portato da Helena Janeczek. All’inizio fu presentato a Edoardo Brugnatelli e a me, che seguivamo la collana “Strade blu”. Arrivò Saviano con una borsa piena di giornali locali della provincia di Napoli e ci illustrò il funzionamento della criminalità organizzata, i sistemi di comunicazione interna eccetera».
Il libro era già scritto?
«Non ancora, si decise poi che doveva essere un libro di narrativa non fiction e quindi se ne occupò Franchini».
Il successo era previsto?
«No, la prima tiratura credo fosse di 4.000-4.500 copie. Fu una sorpresa per tutti, a quel punto bastò accompagnarlo».
Dopo quel successo, non fu facile vederselo passare con un altro editore.
«Ci fu dell’amarezza, ma eravamo anche consapevoli di essere stati gli editori di un’opera unica che rimane unica. Ma con Saviano non abbiamo mai perso i contatti. Un mese fa era a Torino a presentare Rushdie…».
Che impressione le ha fatto Rushdie?
«È la tranquillità apollinea. Non diresti che ha appena preso una serie di coltellate. Ha avuto una capacità di reazione fisica e intellettuale impressionante. Non so quanti avrebbero saputo fare del proprio accoltellatore una figura letteraria».
Come andò il dialogo con Saviano?
«Sembrava un dialogo tra maestro e allievo. Credo che Rushdie abbia cercato di guidare Saviano nel capire e superare le sue difficoltà, anche la rabbia. Comunque, prima della presentazione Rushdie era preoccupato che tutto andasse bene, più per gli altri che per sé stesso. È un uomo molto generoso e ironico».
L’esclusione di Saviano dal la Buchmesse?
«È stato un errore».
Michela Murgia ha deciso di pubblicare con voi il suo ultimo libro.
«L’ho conosciuta poco prima della sua morte. Negli ultimi tempi ogni diaframma tra pubblico e privato era caduto e parlava della sua malattia con estrema naturalezza. Una sua caratteristica era di farti sentire immediatamente speciale. È stato un rapporto di sintonia quasi amoroso, e forse non se l’aspettava».
Si sente ancora il pregiudizio politico verso la casa editrice di Berlusconi?
«Si è molto diluito negli anni. Forse è rimasto uno strumento nelle mani degli altri editori nel momento della competizione. È un’arma un po’ spuntata».
Com’è il rapporto con gli altri editori del gruppo, Einaudi, Rizzoli, eccetera?
«Un rapporto di concorrenza a volte anche feroce, specie nelle offerte dall’estero».
Negli ultimi anni come è cambiato il mercato?
«È un mercato più diffuso nel quale la testa dei bestseller pesa sempre meno e la coda sempre di più: il tempo dei cosiddetti giga-seller è tramontato. Noi abbiamo un catalogo di cinquemila titoli che vendono singolarmente poche copie ma nel complesso contano molto».
Come si spiega?
«È anche una questione di accesso grazie all’ecommerce. In una libreria online ormai puoi trovare qualunque titolo, compresi quelli dei piccoli editori. Le librerie fisiche restano però il luogo in cui fai la scoperta e sono ancora i librai a fare la differenza».
La Mondadori può permettersi di pubblicare un libro di mille copie?
«Certo, tanti classici escono con quella tiratura, bisogna saper agire anche come un piccolo editore».
Che tipo di libro ha maggior possibilità di successo?
«La forma ibrida è la tendenza più evidente. Un tempo L’anno del pensiero magico di Joan Didion era un libro unico, oggi tutti tendono a quella forma, la narrazione anche molto privata si mescola con la saggistica».
Cosa c’è di speciale in quel libro della Didion?
«La lucidità e l’antiretorica nel raccontare il dolore. Lo accosterei a Nati due volte».
È vero che il marketing vince su tutto?
«Per i libri non servono i sondaggi di mercato. A differenza di ogni altro oggetto, la cosa migliore per capire se un libro funziona è pubblicarlo: e spesso ha comportamenti del tutto sorprendenti».
Vent’anni fa il nuovo verbo era l’ebook e il libro di carta era dato per morto. Oggi?
«L’ebook è diventato una propaggine che si è aggiunta e convive con il libro tradizionale senza metterlo in crisi».