Corriere della Sera, 24 giugno 2024
Ritratto di Jean-Luc Mélanchon
Nella piccola piazza di Celleneuve, vecchio quartiere alle porte di Montpellier, ci sono i platani e le panchine come in tanti paesini del Sud della Francia, i campi di pétanque per giocare a bocce, la boulangerie con le baguette e il flan, quel Paese eterno e tradizionale come piacerebbe pure all’estrema destra, e poi però anche la folla venuta ad ascoltare Jean-Luc Mélenchon, leader della France Insoumise: bandiere tricolori e della Nuova Caledonia, della Palestina, del Marocco, sventolate da un pubblico bianco, nero, arabo. «Siamo i meticci, siamo i racisé, apparteniamo a una razza, anche se solo negli occhi di chi ci guarda. Siamo simili nei bisogni, uguali nei diritti. E la Francia siamo noi!», grida Mélenchon, che sembra concentrarsi ora sulla questione fondamentale di questi giorni: esistono francesi più francesi degli altri? La Francia è di tutti quelli che ci vivono, o solo di quelli convinti di interpretarne i valori autentici?
Tra tanti appelli pavloviani a «sbarrare la strada all’estrema destra», così stanchi e rituali che molti si scordano ormai di spiegare il perché, una mano a ricordare la posta in gioco l’ha data negli ultimi giorni proprio il Rassemblement national e il suo leader Jordan Bardella. «Bel ragazzo, anche se dipende dai gusti», concede Mélenchon, e protagonista di un passaggio inquietante sui «francesi di origine straniera», che sono milioni. Nel programma del RN resta poi il divieto di accesso a certi impieghi pubblici per i cittadini che hanno anche un’altra nazionalità, una distinzione tra francesi di serie A e di serie B che risale al collaborazionismo di Vichy.
Mélenchon si infila nella breccia, con un’appassionata difesa di quell’ideale multietnico anni 90 ormai così fuori moda, archiviato tra rinascita dei nazionalismi, crisi della globalizzazione e attentati islamisti. Quel sogno sarà pure in crisi, ma la realtà resta la stessa: «Un quarto dei francesi ha almeno un nonno straniero, il 15 per cento dei francesi vive in una coppia dalle nazionalità diverse, io sono nato a Tangeri in Marocco, mio nonno era uno spagnolo di Orano in Algeria, e chi di voi ha almeno un nonno straniero?». Tutti si sbracciano alzando la mano, molti ne alzano due (come lo stesso Bardella, ndr).
«Vogliono dividerci ma non ci riusciranno», dice sicuro Mélenchon, che ha trovato forse il modo per uscire dall’angolo in cui si era rinchiuso nelle ultime settimane. La campagna della France Insoumise per le elezioni europee è stata incentrata in gran parte su Gaza e la difesa dei civili palestinesi. Ma invece di difendere anche gli ebrei francesi, oggetto di attacchi e insulti senza precedenti dopo il 7 ottobre, Mélenchon aveva minimizzato parlando di «antisemitismo residuale». Macchia che gli è stata continuamente rinfacciata, e ora lui sbotta: «Basta! Ho combattuto l’antisemitismo tutta la vita, queste accuse sono una sciocchezza che serve solo a far votare per l’estrema destra. La lotta all’antisemitismo fa parte del programma del Nouveau Front Populaire, e per la prima volta è menzionata anche quella contro l’islamofobia», aggiunge, mostrando di tenere molto all’equivalenza tra i due fenomeni. Ma la questione dei palestinesi è sorvolata in fretta, con un’invocazione al «cessate il fuoco» a Gaza che del resto accomuna tutti, pure Macron.
Accantonata così l’imbarazzante questione dell’antisemitismo, Mélenchon conferma che sì, vuole essere primo ministro, governare la Francia, la sua Francia della créolisation, il Paese delle tante origini diverse, dalla Polinesia al Maghreb, e che potrebbe essere ricca e potente proprio grazie a questo. Mélenchon ha fama di tiranno collerico e umorale, divisivo e contestato anche nel suo stesso partito della France Insoumise, ma a Montpellier decide di farne un vanto: «Non cercate mai di piacere, non serve a niente. Cercano di fermarci in ogni modo, e oggi c’è anche François Hollande a chiedermi di stare zitto».
La folla si mette a fischiare. L’ex presidente si è candidato a sua volta nel Nouveau Front Populaire per dare forza alla componente socialista, e in caso di vittoria potrebbe anche lui puntare alla poltrona di premier. Poche ore prima del comizio Hollande ha chiesto a Mélenchon di farsi da parte e di tacere, «ma non basta che la buona società, fatta in gran parte di ignoranti, decida qual è lo stile giusto – alza la voce Mélenchon, tra gli applausi —. Come dice il Cyrano di Bergerac, io non rinuncerò mai all’onore di essere un bersaglio. Ma perché l’offesa raggiunga l’obiettivo, deve partire dallo stesso livello, e questo non è proprio il caso». La piazza ride: Mélenchon interpreta alla perfezione la parte dell’anziano professore di paese, burbero ma che sa parlare al popolo. Ormai è scatenato, e chiede: «Ma vi ricordate la faccia che ha fatto Zemmour quando gli ho chiesto qual è il piatto preferito dei francesi, e lui non lo sapeva? Il cous-cous! E in quale Paese si mangia di più la pizza? La Francia!».
A 72 anni, Mélenchon non ha alcuna voglia di passare il testimone. La conquista del governo non è poi così impossibile, e allora si infervora su Jordan Bardella, a suo dire una specie di Macron razzista, e su quanti vogliono mettere i francesi gli uni contro gli altri, prima di concludere gridando «i veri valori della Francia sono liberté, égalité, fraternité!». Finale con la Marsigliese cantata a squarciagola, braccio alzato e pugno chiuso.