la Repubblica, 24 giugno 2024
Intervista a Claire Messud
Czeslaw Milosz sosteneva che «quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo Questa nostra strana storia,che inizia con un incipit estremamente ambizioso: «Sono una scrittrice, racconto storie. In realtà, voglio salvare vite. O più semplicemente: voglio salvare la vita». L’idea di redenzione implicita in una dichiarazione così assertiva non esclude necessariamente la distruzione di un nucleo familiare, tuttavia, andando avanti nella lettura del nuovo romanzo di Claire Messud, tradotto da Costanza Prinetti, mi è apparso chiaro che è grazie a un approccio umanista che l’autrice riesce ad amare ogni personaggio e a smentire sul nascere la teoria di Milosz. È lo stesso sguardo che le consente di comunicare un sentimento di quiete, saggezza e pietà, mentre riesce a trasformare, con sensibilità e ammirevole finezza psicologica, la quotidianità in epica.
La saga della famiglia Cassar, nella quale si riconoscono i Messud, è un romanzo sulla perdita dell’identità, della memoria e persino dell’amore, che è stato accolto da recensioni osannanti: ilWashington Post ha scritto che «trasforma la storia della sua famiglia in un capolavoro»; ilGuardian che è «ambizioso, avvincente, di eccezionale vitalità e con una splendida prosa» e ilFinancial Times parla di «una magnifica saga sviluppata su vari livelli». Condivido questo entusiasmo sottolineando che la forza del romanzo è nella normalità, e in tal senso è illuminante l’esergo di Elias Canetti: «La sua vita, in cui non è accaduto nulla. Non si è mai lanciato in un’avventura, non ha partecipato a una guerra. Non è mai stata in prigione, non ha ucciso nessuno. Non ha messo insieme un patrimonio e non lo ha dissipato al gioco. Tutto quello che ha fatto è stato vivere in questo secolo. Ma già questo è bastato per dare alla sua vita -nel modo di sentire e di pensare – una dimensione».
«Quando ho ripercorso la storia dei componenti mia famiglia», dice mentre si sta preparando per la sua tourné europea «mi sono resa conto di come abbiano attraversatomomenti di straordinaria importanza storica continuando a vivere un’esistenza normale».
È d’accordo con quanto sosteneva Milosz?
«C’è una profonda verità in quella frase, ma spero sinceramente di rappresentare un’eccezione.
Mi capita spesso che giovani scrittori mi chiedano come raccontare qualcosa della loro famiglia senza offenderne i membri. Non ho una risposta, ma posso dire che io hoavuto uno sguardo di compassione, comprensione e desiderio di capire: le poche cose che potrebbero generare dolore sono relative a persone morte da molto tempo».
Come hanno reagito invece coloro che sono ancora in vita?
«Mi ha fatto molto piacere che mia sorella Elizabeth, che ha amato il libro, abbia apprezzato un elemento fondamentale: il tentativo non solo di raffigurare, ma di catturare un mondo che è ormai scomparso».
Inevitabile pensare all’incipit di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
«Anche in questo caso c’è una profonda verità di fondo, colta perfettamente da Tolstoj. Io possoaggiungere, con umiltà, che non esiste alcuna famiglia completamente felice, e che ognuna sia unica a modo proprio».
Perché ha deciso di raccontare ogni capitolo dal punto di vista di un personaggio diverso?
«Per accentuare il rapporto tra la grande storia, piena di eventi straordinari, e la storia dei personaggi, spesso tutt’altro che straordinaria. Ognuno di loro vive questo rapporto in maniera diversa, sovrapponendo le proprie emozioni a quelle degli altri».
Il libro sin svolge lungo settant’anni, partendo da Gaston e Lucienne, una coppia che in apparenza ha un matrimonio perfetto.
«Il tempo è uno dei protagonisti del libro. Ho cercato di riflettere sulla felicità dei personaggi, e quando scopriamo che questa coppia ha un segreto del tutto inaspettato, siamo portati a pensare che il loro atteggiamento sia ipocrita, ma io penso invece che il vero problema è il mito del matrimonio perfetto. Da piccola soffrivo quando vedevo i miei genitori litigare, ma poi ho capito che anche quello faceva parte della linfa vitale che li teneva uniti. Gaston e Lucienne sono una coppia nata in un altro momento storico che è sbagliato giudicare con i parametri attuali: erano assolutamente convinti che la Francia portasse soltanto del bene in Algeria nel momento in cui la colonizzava. E si sentivano in tutto e per tutto francesi».
La seconda generazione, composta da Denise e François sembra più onesta ma meno felice.
«È frequente che le due cose vadano insieme: si tratta di una generazione più strutturata intellettualmente che deve affrontare un mondo che sta scomparendo».
La terza, che ha per protagonista Chloe, vive una diaspora, e oltre alla perdita delle radici deve affrontare il decadimento fisico e mentale degli anziani di famiglia.
«Ho cercato di rappresentare un sentimento che conosco da vicino: il sentirmi al confine delle cose e il provare la nostalgia per qualcosa che non ho conosciuto. Per quanto riguarda la diaspora ricordo un cugino di mio padre che teneva i piatti sempre in un contenitore da trasloco: era questa la loro cultura».
Un elemento inaspettato è la fede cattolica della famiglia.
«Ti rispondo con un episodio: quando mio nonno fu trasferito a Casablanca scrisse al suo arrivo un telegramma con le parole “arrivato senza problemi, ma triste.” Iniziava poi una lunga esortazione a ringraziare e benedire il Signore: due terzi del telegramma, all’epoca molto costoso, erano dedicati a una preghiera».