Il Messaggero, 23 giugno 2024
Intervista a Cristiano De André
De André #DeAndré Best of Live Tour. Si chiama così il nuovo concerto che Cristiano De André è pronto a portare in giro per l’Italia con le straordinarie canzoni del padre Fabrizio, cosa che ormai fa dal 2009 (parte il 13 luglio dal Teatro Verdi di Termoli, in provincia di Campobasso, il 20 sarà all’Auditorium di Roma). Ha 61 anni, due in più di quando suo padre l’11 gennaio 1999 morì stroncato da un tumore ai polmoni, ha quattro figlie, e ormai vive buona parte dell’anno in Sardegna, a Portobello di Gallura. Invecchiando (benino) si è messo a dieta e ha finalmente smesso di fumare – somiglia ancora di più al mitico Faber (soprannome che gli diede Paolo Villaggio). Tre giorni fa è passato al Messaggero per raccontare le sue prossime mosse.
Vengono a sentirla anche i giovani?
«Certo, papà non è roba per nostalgici. Spesso i ragazzi nelle sue canzoni trovano risposte a domande importanti. Lui con la sua arte è riuscito a toccare corde talmente alte che risulta sempre attuale. Per me, a 25 anni dalla morte, è un piacere ma anche un dovere di figlio continuare a far ascoltare dal vivo brani che hanno segnato la storia del nostro Paese da metà degli Anni 70 fino al 1999».
Ormai lo fa da quindici anni: ha scoperto qualcosa di nuovo sul suo conto?
«Conosco a memoria il suo repertorio, ma usando sempre il gobbo per una questione di ansia, a volte leggendolo scopro fra le righe qualche piccola sorprendente sfumatura».
Com’è cambiata nell’assenza, lunga ormai 25 anni, l’idea che ha di lui?
«Sempre più chiara e forte. Il rapporto con mio padre è stato altalenante e a volte molto difficile, anche per via del suo alcolismo, dal quale uscì dopo che mio nonno nel letto di morte si fece promettere che avrebbe smesso di bere. Dopo cambiò tantissimo e, finalmente, ci ritrovammo. Ma quanti scontri... Mi voleva veterinario in Sardegna e non musicista: voleva tutelarmi dal confronto».
Che, inevitabile, c’è sempre stato. Ha pagato un prezzo troppo alto per essere figlio di Fabrizio De André e aver scelto di fare il suo stesso lavoro?
«Non lo so, alla fine sono contento delle mie scelte. Lui per me non voleva questa vita, ma io non avrei potuto fare altro. Anche se a volte, soffrendo, mi sono trovato a pensare di non essere all’altezza, cosa che mi sono portato faticosamente dietro per una vita».
Di sua madre, Enrica Rignon, morta nel 2004, non si parla mai: che rapporto aveva con lei?
«Era una persona molto vivace e simpatica, amata da tutti. Mi ha sempre sostenuto, ma i rapporti con lei sono stati altalenanti. Quando si separò da mio padre, per il quale dal 1962 al 1970, fu anche il suo braccio destro creativo, reagì con disperazione: tentò il suicidio due volte. Avevo 11 e 12 anni quando successe. I figli pagano sempre quando i genitori si separano».
Quando torna nei suoi panni? L’ultimo disco che ha realizzato a suo nome è del 2014.
«Sto scrivendo nuove canzoni e spero di uscire presto con un disco di inediti. Vorrei anche tornare al Festival di Sanremo».
Già per il prossimo targato Carlo Conti?
«Forse. Di sicuro mi piacerebbe farlo per il 2026».
Fra i nuovi cantanti chi le piace?
«Nessuno in particolare, di guizzi creativi ne vedo pochi. In fondo, negli ultimi quarant’anni, ai giovani nessuno ha insegnato l’importanza della cultura e dell’arte e questi sono i risultati. A scuola l’arte è quasi sparita. Io sono legato alla musica degli Anni 70. Amo Francesco De Gregori, anche se non scrive cose nuove da tempo. Credo perché stiamo vivendo un secondo medioevo e parlarne male è troppo facile: meglio star zitti».
Per caso ha qualche progetto extra musicale?
«Certo. Partire per il giro del mondo in barca e fare ciao ciao a tutti».
Ha avuto quello che si meritava o no?
«Non lo so. Avrei potuto dare e fare di più se non fossi stato così pigro. Però se faccio i conti con me stesso, con quel genio che è stato mio padre e con la difficoltà di reggere un cognome del genere, direi che siamo alla pari».
Le sono piaciute tutte le tante cose fatte in questi anni per ricordare Fabrizio De André?
«Per niente. Ringrazio sempre quelli, e sono tanti, che amano mio padre e lo omaggiano in buona fede, ma a volte non è stato fatto proprio il massimo».
Per esempio, il film “Principe libero” con Luca Marinelli che interpretava suo padre parlando in romano?
«Diciamo che non mi ha entusiasmato, anche se Marinelli è davvero un grande attore».
Il meglio per lei deve ancora venire?
«Ho 62 anni, non sono un fiorellino, però se penso a Mick Jagger e Keith Richards mi rincuoro: sono anche dimagrito di 18 chili».
Come si definirebbe, oggi?
«Piacere, Cristiano De Andrè. Capricorno ascendente capricorno, praticamente un rompipalle nato (ride, ndr)».
Ha una compagna o è solo?
«Sono single, ho trovato la tranquillità in mezzo alla natura, di fronte al mare della Sardegna, e per ora sto benissimo così».
In passato i rapporti burrascosi con le figlie sono diventati di dominio pubblico: a che punto siete?
«Ormai sono grandi, ognuno ha la sua strada e fa quello che vuole».
È vero che suo figlio Filippo fa lo chef?
«Sì, è bravissimo. Ha lavorato anche in ristoranti stellati».
Lei se la cava?
«Sì, mi piace cucinare. Anche mio padre era bravo. Solo che adesso sono a dieta e non mi avvicino più ai fornelli».
Oggi deve dimostrare qualcosa a se stesso?
«Sì, sempre. Ho imparato a volermi più bene. Senza fumo ho recuperato la voce. Ho dei bassi che mi fanno assomigliare sempre di più a mio padre, che già definiva la sua voce due toni sotto il rutto...».
Nei concerti racconta sempre delle storie sul suo rapporto con lui?
«Sì, certo. Come il peperone».
Il peperone?
«Papà amava le sfide impossibili, anche con la natura (nella tenuta di Tempio Pausania, in Sardegna, De André aveva persino “costruito”, fra mille difficoltà, un laghetto, ndr). Quando avevo cinque anni, affittò una casa con l’orto nell’entroterra ligure, a Savignone. E iniziò a piantare peperoni. Aveva saputo che lì non crescevano. I contadini lo prendevano in giro: “Belìn Fabrizio, siamo qui da una vita: non ce la farai “».
Come finì?
«Il primo anno, zero peperoni. Il secondo, pure. Il terzo, uno! Quando lo vide, cominciò a gridare come un pazzo, prese un inginocchiatoio e ci mise sopra un paio di luci per scaldarlo. In una settimana diventò grande come un dito indice. Era felicissimo. Solo che io ero un bambino e quel peperone mi aveva incuriosito».
E quindi?
«Mentre lui dormiva, di pomeriggio, gli diedi un morso, staccai la punta e, siccome faceva schifo, la sputai subito. Feci sparire tutto e scappai. Verso sera sentii un urlo. Papà aveva visto il peperone. Il giorno dopo convocò un gruppo di agronomi ed esperti per capire quale insetto potesse aver fatto quel danno. Nessuno capiva. I contadini tornarono a guardarlo con sufficienza. A un certo punto, seduto sulle scale di casa, guardo papà con il peperone ormai appassito in mano. Lui guarda me e poi il peperone. Poi si illumina e mi guarda in cagnesco: “Sarai mica stato tu?” E io: “Ma non mi picchiare”. Iniziai a correre come nei fumetti. E lui dietro di me».