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 2024  giugno 23 Domenica calendario

Intervista ad Aldo Drudi

Le sue tele sono caschi e moto che corrono a velocità supersoniche, le sue gallerie d’arte sono i piloti più famosi del mondo, da Rossi a Biagi, da Melandri a Simoncelli, da Marquez a Iannone. Aldo Drudi, classe 1958, è diventato il più celebre «pittore» del motorsport dopo una vita in studio con il pennello in mano durante la settimana e sui circuiti nei weekend per vedere sfrecciare le sue creazioni. Non solo. Il progettista romagnolo ha appena vinto il suo secondo Compasso d’Oro, il più alto riconoscimento nel mondo del design, per «Ride on Colours» una vera e propria opera che ha trasformato il circuito di Misano in un quadro.
Come si arriva a disegnare livree di caschi e moto?
«La risposta è nella mia carta di identità: sono nato a Cattolica. Questa terra è la culla dei motori, qui abbiamo una pulsione naturale verso la velocità. Ho studiato all’Istituto d’Arte e poi ho frequentato l’Accademia di Grafica a Firenze, ma il vero motivo è la passione per le due ruote. Da ragazzo salivo in bicicletta con i miei amici sulla panoramica che collega Cattolica a Pesaro e poi si scendeva pedalando il più forte possibile. Oggi sembra una follia, ma il primo incontro con la velocità non l’ho dimenticato. La mia naturale inclinazione è stata colorarla, darle vita attraverso forme e cromie diverse».
Il suo lavoro sembra un gioco, ma non lo è…

«La mia professione raccoglie l’eredità di un’arte antica. I guerrieri prima della battaglia si dipingevano mani ed elmetti per rendersi riconoscibili e quasi trasformarsi. I piloti prima della gara indossano il casco che diventa il loro volto e il loro elmetto per combattere. Il casco racconta chi sei attraverso i suoi colori e la vestizione è un rito di preparazione alla corsa. È uno dei momenti più delicati in cui il pilota affronta la tensione e dove convivono tutte le emozioni: la paura, la voglia di vincere, la rivalsa, l’orgoglio».
Come nasce il disegno di un casco?
«Il lavoro si fa sempre in coppia con i piloti. Ci conosciamo, si mangia insieme e si parla di tutto. Durante questo tempo arrivano le idee, qualcuno ha il desiderio di inserire figure, animali, numeri o colori specifici e passo dopo passo il progetto prende forma. Il momento più emozionate è la prima prova: da quel momento il casco diventa il nuovo volto del pilota in gara. Il disegno è un tratto distintivo che lo rende riconoscibile anche a volto coperto, come un tatuaggio per i maori. Ecco perché non uso il computer: preferisco disegnare su un foglio bianco per un’esperienza più vera».
Ricorda gli esordi?
«Il primo casco l’ho disegnato negli Anni 80 per Graziano Rossi (il papà di Valentino, ndr), poi Kevin Schwantz, uno dei piloti a cui sono più legato, Doohan, Pons e molti altri. Tutti grandi alla ribalta prima del successo planetario della MotoGp».
Alcune delle sue grafiche sono memorabili, come ha concepito l’idea di mettere il volto di Valentino Rossi sul suo casco?
«In quel periodo facevamo livree speciali dedicate a gare specifiche. Con Valentino studiavamo un disegno per il Mugello del 2008, ma a pochi giorni dalla gara nessuna idea mi convinceva davvero. Una sera eravamo in studio e lui scherzando mimava il circuito con il corpo. A un certo punto ha strabuzzato gli occhi e aperto la bocca: simulava l’ingresso nella curva San Donato dopo il rettilineo a 300 all’ora. Gli ho scattato una foto ed è nato il casco».
Che ricordo ha di Marco Simoncelli?
«Emanava un’energia unica, era impossibile litigarci. Nonostante che fosse così giovane era buono come una persona anziana dalle larghe vedute, un nonno giovane. Un giorno è venuto in studio con il papà, l’ho visto camminare con quell’andatura dinoccolata, quella massa di capelli enorme. Marco era un’anima pura, schietta e il suo casco con il numero 58 raccontava il suo carattere. Abbiamo scelto una base bianca, il colore della purezza, ma con due striature rosse a sottolineare la sua determinazione. E poi il giaguaro, il suo animale: “Sono tranquillo e sornione, ma so graffiare quando è il momento”. Oggi quel casco è al centro del mio studio e non si muoverà da lì finché vivrò».