Corriere della Sera, 23 giugno 2024
L’insostenibile leggerezza atomica
Putin ha agitato di nuovo la minaccia nucleare durante la sua visita a Pyongyang, dove ha ottenuto dal dittatore nord-coreano le armi per continuare la sua aggressione all’Ucraina. L’accordo con Kim Jong Un potrebbe paradossalmente servire per mettere sotto tutela il suo avventurismo e la guerra atomica non sembra alle porte. La banalizzazione del discorso intorno all’impiego dell’arma nucleare – e soprattutto al suo uso «tattico» – deve però seriamente preoccupare.
Che piaccia o meno, il mondo ha conosciuto negli ultimi settanta e più anni una (relativa) pace, proprio grazie alla bomba. La consapevolezza che uno scambio di missili strategici avrebbe devastato buona parte del pianeta, ha fatto sì che la deterrenza nucleare diventasse uno strumento fondamentale nelle mani di chi la bomba ce l’aveva, ma che fosse inteso che al penultimo gradino era necessario fermarsi. Fu così nella crisi dei missili a Cuba e fu così in maniera meno pubblica in altre occasioni. Il Trattato di non proliferazione nucleare – il TNP – impose a chi la bomba non ce l’aveva ancora di rinunciare a dotarsene, in cambio di garanzie dei due, poi tre, infine cinque paesi nucleari riconosciuti. Servì per un po’ allo scopo, prima che una proliferazione illegale ma di fatto accettata – India, Pakistan, Corea del Nord, Israele— ne riducesse di molto la credibilità. Il non detto che la bomba la si minaccia per affermare una supremazia, ma non la si usa, ci ha bene o male garantito dal reciproco annichilimento in una fase storica caratterizzata dal sostanziale equilibrio di forze fra le due Superpotenze. Quella fase è finita, gli equilibri internazionali sono tutti in discussione, non si parla più di disarmo e Putin torna a giocare la carta della deterrenza aggressiva per affermare la propria superiorità.
La tecnologia ha nel frattempo fatto molti passi avanti e la miniaturizzazione ha permesso di costruire armi nucleari sempre più piccole e (relativamente) maneggevoli. Armi «tattiche», destinate ad impieghi più limitati e al limite da campo di battaglia. Più maneggevoli lo sono, ma sul «piccole» bisogna intendersi: questi ordigni sono decine di volte più potenti di quello di Hiroshima del 1945 e sono in grado di distruggere un territorio pari, più o meno, a una provincia come Viterbo. Sinora non si è andati aldilà delle dichiarazioni di intenti e in quella che fu forse l’unica volta che ci si avvicinò seriamente al loro uso (fra India e Pakistan nel 2001), il buon senso alla fine prevalse.
Equivoco «tattico»
Questi ordigni sono decine di volte più potenti di quello di Hiroshima del 1945 e sono in grado di distruggere
un territorio pari a una provincia
In Ucraina, come a Gaza, la guerra si trascina con prospettive sempre meno chiare e le soluzioni sembrano allontanarsi nel tempo. Medvedev e Lukashenko hanno minacciato più volte di elevare lo scontro al livello nucleare tattico, ma la cosa è rimasta sin qui qualcosa di più di una ipotesi di scuola per i pianificatori militari delle due parti. Tanto la Russia come Israele sono peraltro potenze nucleari che dichiarano di lottare per la loro sopravvivenza: un deterioramento drastico della situazione potrebbe far apparire meno irrealistico un impiego «tattico» dell’arma nucleare, per risolvere rapidamente la situazione sul campo e lanciare nel contempo un forte segnale simbolico, capace di sovvertire i rapporti di forza senza per questo necessariamente sconvolgere totalmente gli equilibri in atto.
Sarebbe un disastro senza proporzioni. L’ipotesi è ora astratta, ripeto, ma la banalizzazione sulla natura e l’impiego del nucleare «tattico» rischia di dare vita a una deriva che è indispensabile contrastare prima che abbia la possibilità di manifestarsi. L’idea di una bomba per assurdo «sostenibile» (la miniaturizzazione intanto va avanti), la creazione di catene di comando più decentrate, la pressione di opinioni pubbliche polarizzate oltre ogni limite, potrebbero innescare un processo difficilmente contenibile, con conseguenze devastanti da qualunque angolo le si guardi. Sul terreno, dove le prospettive di pace svanirebbero per almeno una generazione. Con il rischio più che concreto di una escalation le cui caratteristiche sarebbe impossibile prevedere, e ancor meno governare. Il culmine sarebbe un altro: nella storia dell’umanità è sempre avvenuto che, ogni volta che si è trovata una nuova arma, questa prima o poi ha finito per essere usata. Siamo riusciti sin qui ad evitare che ciò accadesse, ma una volta varcata la linea rossa del non uso, sia pure «tattico», l’assunto che la bomba la si ha ma non la si usa entrerebbe in crisi, facendo saltare la logica della deterrenza e aprendo la via a prospettive sin qui inimmaginabili. È inevitabile tutto ciò? Sicuramente no, ma non è impossibile. È indispensabile una pressione concertata da parte di tutti per contenere, e poi cancellare, la follia della proliferazione delle armi di teatro. Sia per ciò che comportano in sé, sia per il loro potenziale di delegittimare lo scudo della deterrenza. Fra i diversi modi per arrivare all’estinzione reciproca, sarebbe uno dei più stupidi.