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 2024  giugno 23 Domenica calendario

Intervista a Dario Vergassola

Ma perché voi liguri mugugnate sempre?
«Perché per noi è una forma di respiro, ha presente quei sospironi delle mucche che in questo modo si ossigenano il cervello? Ecco, per noi il brontolio, il mugugno, è vita».
Lui però non brontola tanto, anzi. Dario Vergassola, 66 anni, attore conosciuto dappertutto ma tenacemente appiccicato da sempre alla sua Spezia (senza il «La»), chiacchiera amabilmente per un paio d’ore di Savona e della focaccia di Recco, dei capricci di Paolo Villaggio e di quella volta che Faber...
Ligure fino al nocciolo, come un’oliva taggiasca.
«Ma lo sa perché ho scritto questo libro (Liguria, terra di mugugni e di bellezza, per Mondadori Electa ndr)? Per spezzare questo incantesimo secondo il quale noi liguri non ci raccontiamo mai se non insultandoci a vicenda».
Ma infatti. La canzone più bella su Genova l’ha scritta Paolo Conte, che è di Asti.
«Il problema è che la bellezza da noi è stata un’invenzione tardiva. Siamo gente di montagna, mica di mare come molti possono pensare. Portofino e Santa Margherita, per dire, sono diventate da poco mete di lusso, io me lo ricordo quando una casa lì si poteva ancora comprare».
E oggi non sopportate i turisti.
«In molti trattati di psichiatria, i luminari hanno indagato l’autolesionismo del turista che prenota in Liguria».
Ma perché?
«Perché non siamo abituati. Le Cinque terre erano un posto povero che poi, a un certo punto, è diventato cool. Come i sassi di Matera o i trulli in Puglia: luoghi per decenni dimenticati da Dio e che oggi sono inavvicinabili».
Avete un caratteraccio. Infatti se uno pensa a due liguri famosi, Paolo Villaggio o Fabrizio De André di certo non pensa a due «contentoni».
«E perché Gino Paoli? Manco sotto acido a un suo concerto uno osa alzare le mani e cantare con lui».
Lei in confronto sembra Fiorello.
«Ora le racconto una cosa incredibile su Villaggio. Avevamo fatto assieme la fiction Carabinieri e un giorno io andai a Roma. Lo incontrai seduto a un ristorante. Mi prese la mano e cominciò a piangere: “Mia moglie mi ha lasciato e si è portata via i cani, stai con me che sono disperato”. Io avevo un colloquio di lavoro urgente ma non me la sentii di abbandonarlo e così rimasi con lui tutto il pomeriggio, fino a quando arrivò il suo assistente. Presi da parte l’impiegato e gli dissi che ero preoccupato per Paolo e per la sua reazione all’abbandono della moglie. L’assistente mi guardò sbigottito: “Ma quale abbandono, la signora è a casa che lo aspetta”».
E perché Villaggio aveva fatto quella sceneggiata?
«Semplicemente perché non aveva voglia di passare un pomeriggio da solo. Eh, noi liguri siamo delle mer...».
Ma passiamo a Faber. Lo ha conosciuto?
«Sì, e per poco non mi venne un coccolone. Erano gli anni d’oro del premio Tenco, quando uno ci voleva andare anche solo per mangiare e bere assieme a Guccini nella cosiddetta “infermeria”, area mangereccia. Metà comitato del Tenco mi voleva e l’altra metà no. Io comunque facevo ancora il manovale, mamma nemmeno sapeva che andavo lì perché mai mi avrebbe creduto. Dovevo fare degli sketch tra un cantante e l’altro. Avevo appena finito un numero quando andai nel backstage e nella penombra letteralmente andai a sbattere contro un uomo pallido, appoggiato al muro e con una sigaretta tra le labbra. Io, con la mia ansia ipocondriaca, stavo per finire in ospedale, ma lui, Faber, non fece una piega e mi disse soltanto “Ciao”. E lì stavo per avere un altro coccolone».
Perché?
«Ma perché io ero un manovale sconosciuto e Faber mi salutava come se mi conoscesse. Mi è successo un’altra volta, quando la figlia di Gaber mi confidò che suo padre rideva come un matto ai miei spettacoli. Ecco un’altra cosa di noi liguri, specie noi liguri scalcagnati: mai pensiamo di valere qualcosa, siamo ancora quei diciassettenni che passavano le giornate davanti al bar e intorno solo cemento e macchine, dove le donne erano una rarità da entomologi».
La prima volta che si è innamorato?
«Lei era bellissima, coltissima, una ragazza che andava nei cinema d’essai. Così cominciai a vedere tutti i film di Kurosawa – senza dirlo però al bar sennò avrebbero pensato a una nuova bestemmia. La sorella di questa creatura meravigliosa andava a danza e così io, primo esemplare maschile ligure, mi iscrissi al corso di danza moderna, con il costume, fingendo di conoscere Pina Bausch. Mi trasformai per lei».
E come è andata a finire?
«Malissimo per lei, perché le è capitata una disgrazia».
Quale?
«Mi ha sposato».
Sua moglie Paola! E mi dica, anche lei brontola?
«Eccome. Ma ormai non ci faccio più caso, perché per risalire al giorno in cui ci siamo sposati servirebbe la datazione al carbonio».
Ma poverina, deve sopportare un ipocondriaco come lei, che fa le recensioni non dei ristoranti ma dei pronto soccorso.
«Però sono affascinante».
Torniamo alla Liguria: i sentieri dell’entroterra sono bellissimi.
«Peccato che noi liguri, per scherzo, capovolgiamo i cartelli segnaletici per imbrogliare il “foresto”, con lo scopo di farlo perdere sui monti e convincerlo con le buone a desistere dall’esplorazione di questi territori, che gli saranno per sempre ostili».
E così la gente viene in auto e deve affrontare l’incubo degli incubi: il parcheggio.
«Pare che Freud che, come tutti, ha soggiornato da queste parti, proprio qui abbia scritto il suo “Psyche und Parken in Ligurien” – tradotto in italiano con “Disturbo della psiche quando si cerca parcheggio in Liguria”».
Sulla focaccia, però siamo tutti d’accordo, è sublime come poche cose al mondo. Solo che pochi sanno come si mangia davvero, lo spiega lei?
«Con il caffellatte nero e talmente unta che se non si forma la bolla di olio sul cappuccino non vale. Io me lo ricordo il giorno in cui conobbi la focaccia: a casa di mia zia, si aprì il forno e uscì un odore che per me fu una vera e propria iniziazione».
Ora che ci penso, un altro che non si lamenta mai è un savonese vero, Fabio Fazio.
«Ma lui è un ligure che si è evoluto, ha coltivato contatti, è cresciuto dai tempi di “Quelli che il calcio”, quando in trasmissione ci andavo anche io. Ha fatto carriera, mica come noi che ancora siamo qua e ci difendiamo dagli assalti. Un tempo erano Goti e Eruli, poi sono arrivate le orde di milanesi e piemontesi armate di ombrellone e creme abbronzanti. Vede, da queste parti rintanarsi e difendersi è sempre stata la prassi, un aspetto che ha contribuito al nostro carattere così poco giocoso».
Lei nel libro parla della Confraternita degli Antichi Belinoni Ligustici, una setta di liguri atipici a cui piace pagare le cene e spendere soldi per cose inutili.
«Siamo pochissimi, eh».
Vi contate sulle dita di una mano...
«Una mano piccola».