8 maggio 2024
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Biografia di Alan Bennett
Alan Bennett, nato a Leeds (Yorkshire Occidentale, Inghilterra, Regno Unito) il 9 maggio 1934 (90 anni). Drammaturgo. Sceneggiatore. Scrittore. Attore. «Acclamato in tutto il mondo come uno dei migliori drammaturghi viventi inglesi, in quasi 60 anni, dalla fine degli anni Sessanta a oggi, Alan Bennett ha prodotto una sfilza di esilaranti e feroci commedie per la tv, il teatro, il cinema e poi sketch e brevi racconti, fino ai più recenti “diari” autobiografici. […] “Qualunque cosa io scriva ha inevitabilmente quel tocco ironico. È ineluttabile, più che una scelta precisa”. Dietro l’ironia c’è anche rabbia? “Lo spero”» (Anna Bandettini) • «“Sono nato e cresciuto a Leeds, dove mio padre faceva il macellaio. Da ragazzo certe volte facevo le consegne in bicicletta ai clienti, tra i quali c’era una certa signora Fletcher. […] Per cui c’è stato un tempo in cui ho creduto che il mio unico collegamento con il mondo letterario fosse il fatto che io da ragazzo consegnavo la carne alla suocera di T.S. Eliot”. “Qualche anno più tardi, quando papà aveva venduto la macelleria, ma continuavamo a vivere a Leeds, mia madre arrivando a casa disse: ‘Ho incontrato la signora Fletcher per strada. Ma non era in compagnia del marito, era con un altro tipo – alto, anzianotto, con un’aria molto raffinata. Mi ha presentato e abbiamo passato qualche ora insieme’. Soltanto qualche tempo dopo ho capito che […] mia madre era stata in compagnia di T.S. Eliot. Ho cercato di spiegarle l’importanza di questo grande poeta, ma senza molto successo, dato che La terra desolata non rientra negli schemi mentali di mia madre. Per finirla le comunicai che, dopotutto, aveva vinto il premio Nobel. ‘Beh’, mi disse con quella infallibile capacità di cogliere l’essenziale tipica delle madri, ‘non mi meraviglia affatto: dopo tutto, aveva un gran bel cappotto!’. Così ho finito per interpretare questo casuale incontro con il signor Eliot come una sorta di parabola, una previsione di come, quando avessi finalmente cominciato a scrivere, avrei interpretato due anime diverse, quella metropolitana (con linguaggio appropriato) e quella provinciale (con il linguaggio mio personale)”. […] Il padre di Alan era un timido macellaio assai religioso, che riuscì a comperarsi il negozio e che ha sempre raccomandato al figlio di restare soprattutto fedele a se stesso, anche se lui poi non lo era tanto, visto che era anche un bravo violinista. È di questa rispettabile, indipendente working class inglese che parlano le opere teatrali di Bennett» (Richard Newbury). «Mio padre, pur essendo un macellaio, e mia madre, una casalinga, portavano sempre me e mio fratello alla biblioteca pubblica e tornavamo a casa carichi di libri. Ho letto parecchio da ragazzo, ed è merito dei miei. Non desideravano vedermi diventare macellaio». Crebbe con il proposito di diventare sacerdote, ma durante il servizio militare, svolto in parte frequentando un corso di russo a Cambridge («C’era la Guerra fredda, qualcuno mi consigliò di arruolarmi nel corso di russo e non me ne sono mai pentito: oltre ad avere appreso una bella lingua, mi mandarono a studiare a Cambridge anziché a combattere in Corea, come capitò a tanti miei commilitoni»), finì per cambiare idea. «Eravamo ufficiali cadetti e alcuni di noi studiavano il russo. L’esame per ufficiali era facile, ma io non ci riuscii e fui retrocesso al ruolo di soldato semplice. Ero molto diligente e per me fu una delusione tremenda, la prima volta in cui fui respinto. Mi destabilizzò molto, il mio atteggiamento nei confronti del mondo cambiò decisamente e diventai più radicale, persi ogni soggezione all’autorità» (a Leonardo Clausi). «Avendo deciso che ne aveva abbastanza di Cambridge, si trasferì a Oxford, sempre per studiare Storia» (Newbury). «“A Oxford […] sono arrivato senza che i miei spendessero un soldo: prima ho fatto le scuole pubbliche, poi vinto una borsa di studio per l’università. […] Gli snob non mancavano. Dipendeva dal college in cui capitavi. Nel mio, Exeter, metà degli studenti provenivano da scuole statali come me. Ma riconoscevo i rampolli ricchi dall’accento”. A Oxford, Bennett studiò e per un po’ insegnò Storia medievale. “Una scelta casuale, non è che mi affascinasse particolarmente. Ma l’insegnante di Storia medievale era il migliore, e perciò scelsi la sua materia”. […] La carriera accademica di Bennett si interrompe quando sale sul palcoscenico universitario, in pratica per non discenderne più. […] “Per diventare attori bisogna volerlo fortissimamente e io non lo volevo neanche un po’. Volevo scrivere, piuttosto. […] Era l’unica cosa che mi rendeva felice”» (Enrico Franceschini). «Alan Bennett s’impose all’attenzione del pubblico inglese nel 1961, all’età di ventisette anni, come uno dei quattro interpreti di Beyond the Fringe, che debuttò al Festival di Edimburgo e che fu poi replicata con successo nel West End londinese e a New York. Questo tipo assolutamente oxfordiano, occhialuto, piuttosto serio, che sembrava destinato a una carriera di docente presso l’Università di Oxford, decise invece di dedicarsi al teatro. Scritto e interpretato insieme a Jonathan Miller, Dudley Moore e Peter Cook, Beyond the Fringe cambiò profondamente il genere della rivista inglese, che fin dalle sue origini nel XIX secolo si era limitata alla satira di costume. Sul palcoscenico di Beyond the Fringe quattro giovani intellettuali traggono invece il loro materiale da campi diversissimi e prendono a oggetto di satira inquietudini esistenziali, come la morte e la religione, o controverse questioni politiche, quali la bomba nucleare e il disarmo» (Margaret Rose). «Bennett, abbandonando lo studio dell’epoca di Riccardo II, ebbe un immediato successo come autore teatrale. […] La pièce Quarant’anni, che divenne il suo primo grande successo nel 1968, presenta una tipica public school inglese che passa dalle mani di un rettore tradizionale a quelle di un moderno esponente radicale. La scuola diventa un business, un posto di valore da sfruttare, aperta anche a clienti europei. Parti della proprietà vengono date ad affittuari, bisogna ammodernarne altre, altre ancora vengono messe in vendita esattamente come pezzi disastrati dell’impero. Come ricorda il vecchio rettore, la principale qualità della qualità è di essere sempre sorpassata. Il paradosso di Bennett, che questo spettacolo cerca di risolvere e che interpreta perfettamente una tipica mania inglese, è quello di rimpiangere i privilegi dell’èra edoardiana, pur ammettendo che si tratta di un sentimento ridicolo e ipocrita. […] Il testo è pieno di tipici riferimenti allo humour di Oscar Wilde, in cui Bennett si dimostra maestro: tutte le donne si vestono come le loro madri, è questa la loro tragedia, mentre nessun uomo lo fa, e anche questa è la loro tragedia» (Newbury). Il grande successo della commedia segnò l’inizio della sua lunga e fortunata attività di autore, presto declinata, oltre che nelle vesti di drammaturgo teatrale, anche in quelle di sceneggiatore televisivo e cinematografico e di narratore. «All’inizio ha scritto molto per il teatro e la televisione. Com’era il teatro inglese degli anni Cinquanta? “Straordinario per un giovanotto come me. La mia prima commedia fu interpretata da John Gielgud e in sala a vederla c’era Noël Coward”. […] E in tv lavorò con Dudley Moore, poi diventato una star di Hollywood: che tipo era? “Una persona molto gentile e l’uomo con la vita sessuale più attiva che abbia mai conosciuto. Aveva sempre la casa piena di ragazze. Il problema è che alcune poi le ha sposate”» (Franceschini). «Nella sua sterminata produzione di racconti lunghi, di “novelle”, di testi teatrali, di copioni televisivi di cui fanno parte le Talking Heads, […] i monologhi pungenti e malinconicamente divertenti passati in televisione con grande successo, la puntata massima Alan Bennett l’ha probabilmente raggiunta con La sovrana lettrice, uno “scherzo”, in senso musicale, sulla passione per i libri e i rischi della cultura. Capita infatti che la regina, recentemente innamoratasi dei libri, chieda al primo ministro francese, durante una cena ufficiale, se gli piaccia Jean Genet, con lo scompiglio e le minirivoluzioni che ne seguono… Una esilarante radiografia della società britannica di oggi è La cerimonia del massaggio, che vede riuniti, a un funerale, i clienti di un abile e attraente massaggiatore. Tra risate e compassione umana è La signora nel van, dove si racconta di una vecchia dama che ha chiesto ospitalità a Bennett perché il suo van potesse stare per qualche ora sul suo vialetto di casa, dove invece rimarrà per quindici anni: una storia prontamente diventata un film con la grande Maggie Smith. E poi la splendida sceneggiatura di La pazzia di re Giorgio, e la commedia giovanilistica The History Boys, su una squadra di studentelli che tentano di farsi ammettere a Oxford. Scampoli intelligenti e graffianti di uno scrittore britannico come la Union Jack. […] Alan Bennett […] scrive mosso da un paradossale senso della critica sociale che traduce, per nostra fortuna, in ironia e divertimento, con un tocco di malinconia e di partecipazione che rende il tutto, anche il sarcasmo, umano, affettuoso» (Irene Bignardi). Nel luglio 2018 ha debuttato con successo al Bridge Theatre di Londra la sua ultima commedia, Allelujah!, ambientata in un gerontocomio a rischio chiusura per i tagli ai finanziamenti della sanità nazionale, in seguito adattata per il cinema da Richard Eyre nell’omonima pellicola. Del 2022 è invece Arresti domiciliari. Diari della pandemia, «il personale diario durante il lockdown. […] Oggi […] Alan Bennett ha una vita ritirata. […] È come se avesse accentuato il distacco da ciò che lo circonda. “Non vado nemmeno più a teatro, da quando mi è venuta l’artrite”, confessa candidamente dalla sua casa londinese. Ha diradato anche il lavoro a cui fino a poco tempo fa si dedicava ogni giorno, seduto al tavolo dalle 10.30: “Ora scrivo molto poco. La mia fedele macchina da scrivere non funziona più molto bene e questo non mi aiuta”. Si dedica di più alla lettura» (Bandettini) • «Per molti inglesi, Alan Bennett è sopra ogni cosa Winnie the Pooh, […] grazie al suo tipico accento piatto dello Yorkshire con il quale in passato ha narrato le rocambolesche avventure del mitico eroe della loro infanzia» (Newbury) • «Bennett […] ebbe una storia di ben quattordici anni con una vivace e giovane ungherese di nome Anne Davies, in origine la sua colf, che con gran sorpresa dei suoi amici divenne poi la sua amante e che non era assolutamente interessata alle sue creazioni letterarie» (Newbury). Omosessuale dichiarato tardivamente e senza fervori ideologici («Non volevo essere etichettato come gay», «Non sono un crociato, uno che va sulle barricate»), vive da anni con Rupert Thomas, a lungo direttore della rivista di arredamento The World of Interiors, a Primrose Hills, «quartiere londinese in cui tutti si conoscono, gli sconosciuti salutano con un “good morning” e i ragazzini aiutano le vecchiette ad attraversare la strada. Ha l’atmosfera di un villaggio, non di una capitale, e ci sto bene per questo». «“La vecchiaia è difficile. Ma sono sostenuto dal mio partner Rupert Thomas”. È stato difficile fare coming out su questo rapporto? “Per la verità non l’ho mai fatto del tutto. Semplicemente il problema si è cancellato da sé. Da giovane ero reticente perché non volevo essere incasellato. Quando invecchi smette di avere importanza”» (Bandettini) • «Lo sguardo graffiante ha toccato tanti campi, poche volte argomenti religiosi. Come mai? “All’inizio della mia carriera, dal 1960 al 1964, sono stato attore e coautore in Beyond the Fringe, che ho recitato a Londra e Broadway. Uno dei miei sketch era la parodia di un sermone anglicano. Da allora ho evitato di scrivere sul clero, mantenendo un grande rispetto per la Chiesa d’Inghilterra”» (Bandettini). «Lei crede in Dio? “Non proprio. Però ho passato anni a scuola in cui si iniziavano le lezioni con preghiere e canti religiosi: è qualcosa che ti resta nelle ossa, che risuona in me. Ed è il motivo per cui vado volentieri in chiesa: non per le funzioni, quando sono vuote. E nel cimitero della chiesetta di campagna in cui sono sepolti i miei sarò sepolto anch’io”» (Franceschini) • Laburista, detesta da sempre Margaret Thatcher («La detesto oggi che è morta quanto ieri che era viva, e ne detesto la postuma santificazione, in pieno svolgimento») e considera fondamentale il ruolo della scuola pubblica («Sono stato istruito a spese dello Stato, sia a scuola che all’università. Lo Stato ha salvato la vita a mio padre e una volta anche a me. […] Senza lo Stato non sarei qui oggi»). «Senza essere stato particolarmente di sinistra, sono lieto di non aver mai fatto quel triste safari da sinistra a destra che in genere è conseguenza dell’età, un viaggio che sembra attirare in particolare gli scrittori. […] Se per me non è stato così, è in parte dovuto alle circostanze: dagli anni Ottanta in poi è successo così poco in Inghilterra di apprezzabile e degno di appoggio, a mio giudizio. Per diventare radicale è bastato star fermo». Pur avendo rifiutato tanto il titolo di comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico quanto quello di cavaliere, non è repubblicano. «Le piace re Carlo? “Sono sia socialista sia monarchico. E di re Carlo credo che lavori più duramente di quanto gli sia mai stato attribuito”» (Bandettini) • «Come si rapporta alla cancel culture? “È sempre arduo praticare la franchezza”» (Bandettini) • A proposito dei suoi difetti: «Sono pigro, e sono un insicuro. La mia virtù più riconosciuta da tutti è la gentilezza» • «La cifra comune a tutto il suo lavoro è una vena satirica, che ne fa un esempio straordinario, quasi emblematico, di humour inglese (“as British as Alan Bennet”, inglese come Alan Bennett, è una frase diventata quasi un cliché). Ed è proprio con gli stereotipi che l’autore gioca nei suoi testi, mettendo in scena, dissacrandoli, tutti gli elementi che caratterizzano la piccola-media borghesia inglese. Timidezza, solitudine, il grigiore delle città del Nord della Gran Bretagna, l’alienazione delle famiglie, il perbenismo e l’ipocrisia: sono tutti temi che ricorrono nella sua produzione» (Giovanna Mancini). «Ogni sua commedia o atto unico promette sempre risate, anche quando sono amare, anche quando a specchiarsi nelle sue righe sono le nostre anonime solitudini, paure, fragilità, le nostre piccole vite domestiche su cui ci sarebbe ben poco da ridere, se non fosse per il tocco leggero e l’understatement con cui le sfiora lui» (Bandettini). «Bennett sembra scrivere spinto da un desiderio insaziabile di esplorare le idiosincrasie dell’individuo, occupandosi di situazioni specifiche piuttosto che di più ampie questioni politiche e sociali, le quali rimangono comunque sullo sfondo. La sua attenzione si accentra su gente comune (generalmente nel suo nativo Nord) e su celebri personaggi sia del passato, quali re Giorgio III e Kafka, sia dei tempi più recenti, quali le spie di Cambridge Anthony Blunt e Guy Burgess. Come Amleto, è ossessionato dall’enigma dell’essere e dell’apparire ed eccelle proprio grazie alla sua superba abilità nel rappresentare i giochi illusori attraverso i quali inganniamo noi stessi e gli altri. Il risultato finale è spesso tragicomico, dato che ridiamo di questi inganni ma nel contempo siamo commossi dalla difficoltà dei personaggi nel rapportarsi a sé e agli altri. […] Dopo aver assistito a una rappresentazione di Bennett non si ha mai l’impressione che egli abbia voluto impartire un messaggio morale o didattico, ma si ha semplicemente la sensazione di capire meglio il personaggio e di identificarsi con la sua difficile situazione» (Rose). «Forse proprio questa sua inclinazione alla critica feroce accompagnata da una gran riservatezza fanno di Bennett un patrimonio nazionale. È intelligente ma non ama pontificare, i suoi testi sono sempre più complessi delle pure e semplici ideologie. È in fondo un altro tipico inglese nostalgico del tempo che fu, pur professandosi modernizzatore e radicale. È uno che difende ferocemente la propria privacy pur essendo un perfetto animale teatrale e un funambolo verbale. Non per caso Alec Guinness è stato il suo miglior amico. Come lui, anche Bennett rifugge con diffidenza dalle luci della ribalta. Preferisce stare nell’ombra, pur ammettendo che questa sua estrema ritrosia in realtà è una forma di arroganza intellettuale» (Newbury) • «Scrivere mi piace, mentre mi piace meno leggere quello che ho scritto» • «Che consiglio darebbe a un giovane scrittore? “Di tenere sempre a portata di mano un taccuino mentre legge, e anche quando non legge, per annotare un’idea, una frase letta o sentita: così quando si mette a scrivere non fissa una pagina bianca, ha qualcosa da cui partire”. Tace un momento. Riflette. “E un altro consiglio. Non pensare che una vita comune sia priva di interesse. Le vite più ordinarie sono materiale da romanzo: parlo per esperienza personale”» (Franceschini). «A un giovane commediografo cosa direbbe? “Hai tutta la mia solidarietà”» (Bandettini) • «Gli accademici mi hanno sempre terrorizzato, io sarei stato un pessimo professore universitario. Non sono capace di elaborare discorsi precisi e coerenti. Ma i testi teatrali sono perfetti per discorsi incoerenti messi in bocca a persone imperfette. Il dramma è il retrobottega dell’intelletto. Filosofi e storici entrano dalla porta principale, ma commediografi e scrittori si intrufolano dalla porta di servizio con il loro discutibile bagaglio» • «Prima di cominciare a scrivere avevo un’idea molto pomposa dell’autore teatrale. Pensavo che fosse un demiurgo, un creatore… Poi mi sono accorto che le cose non stanno così. Sì, è vero, tu dai vita a un personaggio, poi però è lui a tenere le redini della vicenda, a spiegarti il percorso che sta facendo, il problema che sta cercando di risolvere. Ed è sempre lui, da ultimo, a offrirti un brandello di verità» (a Franco Marcoaldi).