la Repubblica, 23 giugno 2024
Polonia. La vittoria elettorale di Donald Tusk dell’autunno scorso ha portato con sé la promessa di un rapido ripristino dello stato di diritto dopo gli anni dell’autoritarismo del Pis Ma riportare le libertà nel Paese si sta rivelando un’impresa. Anche a causa dei veti di Duda
La democrazia non è un pranzo di gala, per parafrasare Mao. Dopo la vittoria di Donald Tusk alle elezioni di autunno del 2023, c’è chi ha annunciato “un nuovo inizio”, chi una “ricostruzione”, chi una “ri-democratizzazione” della Polonia. Ma una volta sfumata l’euforia, sta venendo fuori la fatica di Sisifo della ricostruzione. E dopo otto anni di sistematica repressione del dissenso, di stalinistico controllo della magistratura, dell’informazione e del Parlamento, il Paese è in mezzo al guado. A distanza di sei mesi dall’insediamento del governo guidato dal leader di Piattaforma civica (Po), è chiaro che non tutti i tentativi di restaurare il pluralismo dopo gli autoritari e ultracattolici governi del Pis (Diritto e Giustizia) sono andati in porto senza forzature. E in alcuni campi, il cammino delle riforme per tornare a una piena democrazia si sta dimostrando impervio.A Varsavia, la battaglia per la restaurazione dei valori repubblicani e dei diritti va avanti senza indugi ma su un terreno estremamente accidentato. E dopo la spaventosa ascesa delle destre sovraniste e nazionaliste alle elezioni europee del 9 giugno, la fatica del ritorno alla democrazia in Polonia dovrebbe essere un monito per tutti. Una volta indossate, liberarsi dalle catene delle autocrazie è complicato. La sfida per sconfiggere la “tracotanza dei Titani”, come quella che il Prometeo di Goethe lanciò agli dei, è appena agli inizi.Lo stallo alla messicanaAnzitutto, non è semplice ripristinare un equilibrio dei poteri democratici, dopo che le forze nazionaliste e sovraniste hanno infiltrato tutte le istituzioni e gli spazi pubblici e molti ambiti privati. Il grave conflitto istituzionale che si è scatenato a Varsavia dopo la vittoria di Tusk alle elezioni legislative dello scorso ottobre, ne è un esempio clamoroso. Il suo governo di coalizione è scivolato dal primo istante in un braccio di ferro sfinente con il presidente della Repubblica, Andrzej Duda, esponente del Pis e nemico agguerrito di Tusk. Il capo dello Stato sta bloccando ogni tentativo di ripristinare lo stato di diritto e le libertà strappate ai polacchi in questi anni, e minaccia anche di mettere il veto sulla riforma dell’aborto, la madre di tutte le promesse, per tanti elettori di Tusk. In Polonia, il presidente della Repubblica può porre il veto su ogni legge, ad eccezione del bilancio. E Duda sta sfruttando il suo potere al massimo.Il caso più recente è il blocco della norma che riconoscerebbe autonomia linguistica agli slesiani, ma il capo dello Stato ha già posto nei mesi scorsi il veto sulla legge per introdurre la pillola del giorno dopo, sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura che consentirebbe ai giudici di liberarsi dal giogo della politicizzazione e di tornare ad autogovernarsi e ha persino congelato le nomine dei nuovi ambasciatori. E sono solo alcuni esempi. «Peraltro, quando non affossa le leggi e le riforme con il chiaro intento di mettere in difficoltà il governo Tusk e paralizzarne l’attività, le invia alla Corte costituzionale, notoriamente controllata dal suo partito, il Pis».Tomasz Orlowski non riesce a capacitarsi dell’ostracismo del capo dello Stato. Fa fatica a mantenere il suo aplomb da ambasciatore di lungo corso. Abbiamo appuntamento davanti al sontuoso castello barocco di Wilanow, a Est di Varsavia. Passeggiando lungo i suoi magnifici giardini alla francese, il diplomatico ci racconta che persino la nomina dei nuovi vertici delle aziende pubbliche è resa più complicata «da codicilli statutari introdotti poco prima delle elezioni che rendono gli amministratori delegati difficilmente rimovibili». E non è un dettaglio, se pensiamo che il governo Morawiecki ha costretto ad esempio il più grande conglomerato energetico polacco, Orlen, a comprare miriadi di giornali locali per trasformarli in strumenti di propaganda del Pis.Il capo dello Stato ha creato uno stallo istituzionale alla messicana che sta costringendo l’esecutivo a posporre molte riforme a dopo le elezioni presidenziali del 2025 – sperando che il Pis non riesca a imporre di nuovo un presidente ostile come Duda. «La verità è che sta facendo di tutto per impedire che il governo Tusk cambi finalmente questo Paese», chiosa Orlowski, allargando le braccia.
Igor Tuleya è stato il simbolo della ribellione dei magistrati polacchi contro la stretta dei governi del Pis: il suo viso spigoloso, bellissimo, stampato su miriadi di magliette, è stato portato in piazza ogni volta che si è cercato invano di fermare la deriva stalinista dei tribunali. Tuleya ci accoglie nel suo piccolo appartamento nel centro di Varsavia avvolto da una nuvola di fumo di sigaretta, tra pareti che traboccano di libri. Anche il giudice ama le magliette, per incontrarci ne indossa una con George Orwell, lo scrittore che più lucidamente raccontò la sorveglianza totalitaria. Tuleya è diventato il simbolo del maleficio della giustizia ritardata che è sempre giustizia negata, per citare Montesquieu. Rimosso dal suo incarico perché scomodo, mobbizzato, minacciato e mai reintegrato dai governi del Pis nonostante le sentenze della Corte di Giustizia europea e i numerosi richiami di Bruxelles. E mentre la sua vita deragliava, la giustizia polacca finiva totalmente sotto il controllo del potere politico, di quel Pis che aspirava a diventare totalizzante, come il Pcus di Stalin.Dal 2015 in poi, il Pis ha modificato i meccanismi di elezione dei giudici strappandogli ogni autonomia e subordinandoli al Parlamento e al partito. È riuscito a occupare la Corte costituzionale e ha cercato di mettersi sotto i tacchi anche la Corte suprema; ha occupato i tribunali ordinari e creato un Consiglio disciplinare che è diventato una sorta di Inquisizione dei togati, chiamato a cacciare quelli scomodi e invisi al regime. Un’aberrazione della giustizia che ha precipitato Varsavia in uno scontro permanente con le istituzioni europee, che sono arrivate a multare la Polonia e a tagliarle i fondi europei per le violazioni dello Stato di diritto.Tuleya ci offre un tè, gli chiediamo anzitutto come sta, e forse ci aspettiamo una risposta diversa. Il giudice fa una lunga pausa e sospira. «È una domanda impegnativa. Sto meglio rispetto a ottobre, da allora è cominciato un cammino molto difficile per ripristinare lo Stato di diritto. Ed è una lotta che richiederà molta forza e molta pazienza. Anche perché il presidente della Repubblica Duda ci mette continuamente i bastoni tra le ruote».Un esempio. Nella sua perversa idea del diritto, il Pis aveva concentrato nella stessa persona il ruolo di ministro della Giustizia e quello di procuratore generale. Il vertice del potere esecutivo e il potere giudiziario erano stati fusi in un ruolo unico, in barba alle regole più basilari della tripartizione dei poteri che secondo Montesquieu fonda ogni democrazia. Il nuovo ministro della Giustizia, Adam Bodnar, ha promesso subito di separarli e ha nominato un nuovo procuratore generale. «Ma il presidente Duda – racconta Tuleya – non riconosce questo nuovo procuratore generale. È un problema, ovviamente».Le riforme bloccateLe priorità, secondo Tuleya, sono quelle di liberare i tribunali e anzitutto la Corte costituzionale e la Corte suprema dai giudici vicini al Pis che erano la diretta emanazione del vecchio potere politico. Ma è difficile cacciarli. «Fino al 2015 i magistrati erano nominati dagli stessi magistrati. Dopo, sono stati tutti scelti dal Parlamento, dunque dal Pis. E adesso bisogna tornare all’autonomia dei giudici, a cominciare dalla nomina». Il ministro della Giustizia Bodnar ha raccontato in un recente convegno a Budapest di aver cercato anche di rendere più democratico il processo di selezione dei giudici. «Quando un posto di giudice resta vacante, per limitare i miei poteri, ho deciso, accogliendo le raccomandazioni dell’Ecchr e della Commissione di Venezia, di chiedere ai tribunali stessi di suggerirmi due o tre nomi per quella posizione. In questo modo ne ho già nominati 42». Ma dal 2015 a oggi, ha aggiunto Bodnar, i magistrati di nomina politica sono più di duemila su un totale di circa 10mila. Liberarsi di quelli asserviti al Pis sarà «difficile», ammette anche Igor Tuleya.Anche gli “inquisitori” dalla Camera disciplinare sono impossibili da cacciare. E Bodnar si è inventato intanto uno stratagemma, per limitare il loro danni. «Ho nominato dei giudici disciplinari ad hoc che intervengono o annullano i processi disciplinari intentati contro i togati indipendenti». Insomma, il ministro della Giustizia è costretto, finché non saranno varate le sue riforme, a far intervenire un giudice di fiducia per annullare le eventuali azioni di un altro giudice politicizzato contro un giudice autonomo. Un delirio.Al convegno a Budapest, il ministro della Giustizia è stato costretto ad ammettere che finché il presidente della Repubblica gli mette i bastoni tra le ruote, c’è ben poco da fare. La Corte costituzionale, controllata dal Pis, «è in crisi, è stata usata strumentalmente per otto anni. Stiamo preparando varie riforme, ma dobbiamo sempre trovare il modo di non farle bloccare dal capo dello Stato. E forse saremo costretti ad aspettare il 2025, quando ci saranno le elezioni presidenziali, per attuarle».Per i suoi sforzi, comunque, Bodnar è già stato premiato. La Commissione europea gli ha concesso un’importante apertura di credito: a maggio l’esecutivo di Bruxelles ha annunciato lo sblocco dei fondi europei che erano stati congelati durante i governi del Pis causa continui attentati all’indipendenza dei giudici. «Oggi comincia un nuovo capitolo, per la Polonia», ha commentato sorridente la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.A dicembre, fresco di giuramento, il governo Tusk prende una decisione importante che suscita qualche alzata di sopracciglio, anche fuori dalla Polonia. Poco prima di Natale, il ministro dei Beni culturali, Bartlomiej Sienkiewicz, caccia su due piedi i vertici dell’informazione pubblica. Azzera i direttori della televisione di StatoTvp,della Radio polacca e dellaPap,la mitica agenzia di stampa di uno dei più grandi inviati della storia, Ryszard Kapuscinski. Del resto, negli otto anni di predominio del Pis, l’informazione pubblica si è trasformata in un megafono grottesco del regime. Dal 2015, sotto il controllo ferreo di Jacek Kurski, un direttore fedelissimo al padre padrone del Pis, Jaroslaw Kaczynski, ha attuato una purga che ha azzerato tutti i dirigenti e i giornalisti non allineati. I media pubblici sono diventati uno strumento di propaganda a senso unico che hanno scatenato campagne d’odio contro avversari politici, minoranze Lgbtq+, profughi e spesso anche contro l’Unione europea, quando ha cercato di frenare la deriva autocratica di Varsavia.Tra il 2015 e il 2023 la Polonia è precipitata di decine di posizioni nei ranking internazionali sulla libertà di stampa, e Reporter senza frontiere ha denunciato a più riprese «la trasformazione dell’informazione pubblica in propaganda di Stato». La decisione del governo Tusk di azzerare da un giorno all’altro i vertici dei media pubblici asserviti a un partito finito da ottobre all’opposizione, è stata dunque «una decisione non elegante, ma necessaria», commenta Bart Wielinski, vicedirettore del più importante quotidiano polacco, la Gazeta Wyborcza.La stessaGazetanon naviga ancora in acque tranquille. Essendo privata e non essendosi mai allineata ai dettami del Pis, ha vissuto in trincea per otto anni. I politici del partito di governo hanno perseguitato il quotidiano incessantemente inondandolo di querele, boicottando i suoi giornalisti, persino obbligando le aziende statali a cancellare le pubblicità sul giornale. Wielinski ci racconta che a sei mesi dall’insediamento dell’esecutivo Tusk, la Gazeta ha ancora molte cause pendenti. «Ma la maggior parte – aggiunge – erano partite dal ministero della Giustizia, e l’attuale ministro Bodnar temo che abbia talmente tanto da fare con le riforme per ripristinare lo Stato di diritto che fatica a stare dietro alle cause a nostrocarico, intentate dal suo predecessore». Anche sulle inserzioni, Wielinski sa che «bisogna avere pazienza. Gli amministratori delegati di tante imprese statali devono ancora essere sostituiti. Penso che tra un po’ le cose torneranno in equilibrio». Del resto, ragiona il vicedirettore della Gazeta Wyborcza, «è chiaro che Tusk vuole distinguersi dai suoi predecessori, che agivano con la clava. Lui ha promesso di tornare a un ordine democratico, pluralistico. Ma ci vuole tempo. E pazienza».E forse gli spettatori dell’era Kaczynski si erano abituati un po’ troppo alla “poltiglia propagandistica”, come l’ha bollata il sito Demagog, che ha analizzato a febbraio i primi mesi dell’informazione pubblica liberata dal Pis. Gli analisti del sito hanno riscontrato uno sbilanciamento della “nuova” informazione di Stato a favore del governo Tusk. Ma nulla di paragonabile alla “vecchia” tv pubblica: Marcin Wolski ne è stato uno dei principali volti. E dopo la vittoria elettorale di Tusk ha ammesso che dal 2015 i suoi telegiornali avevano «creato una propaganda peggiore di quella dei comunisti negli anni ’70». Una logica che il “pentito” della tv dell’era del Pis ha definito, tout court, “stalinista”.Nel primo mese dell’insediamento dei nuovi vertici e del tentato ritorno al pluralismo, tuttavia, gli ascolti diTvp sono crollati. La tv pubblica ha perso due terzi dei suoi spettatori, stando ai dati di Wirtualne Media, ed è scivolata da secondo a quarto canale più seguito in Polonia. Sembra complicato fare informazione in un Paese che si è radicalmente polarizzato.«La cosa peggiore – commenta Wielinski – sono quelli che si mettono nel mezzo e fanno i terzisti. Negli anni del Pis c’è stata la luce e l’ombra. Noi giornalisti, per rimanere indipendenti e contrastare le bugie continue di regime, abbiamo dovuto scegliere. Sui media statali io sono stato continuamente dipinto come “traditore” perché raccontavo anche all’estero come stavano le cose in Polonia. L’equidistanza, quando da una parte c’è la mistificazione e la bugia patologica, non è accettabile per un cronista che deve attenersi ai fatti».Le donne si (ri)organizzano.Anche la liberalizzazione dell’aborto può attendere: la più solenne delle promesse di Donald Tusk. In campagna elettorale, il leader di Piattaforma civica si era spinto sino a dire che nei primi cento giorni avrebbe ripristinato il diritto all’interruzione di gravidanza. E il voto di ottobre si è rivelato un’apertura di credito soprattutto da parte delle donne e dei giovani, che si sono precipitati in massa a votare per mandare a casa il governo ultracattolico del Pis, dopo anni di manifestazioni e militanza repressi da manganelli e tribunali ostili.Nel frattempo sono passati sei mesi dall’insediamento del governo Tusk, e le donne sono dovute tornare in piazza, hanno dovuto mettere su banchetti, hanno ricominciato a raccogliere le firme per il diritto di scegliere. Ma gli otto anni di guerra contro le donne del più misogino dei governi polacchi hanno portato, intanto, a un risultato importante.Negli anni bui degli attacchi al diritto all’aborto, le donne si sono organizzate. E si sono federate in un comitato nazionale per farsi eleggere e contare di più nei consigli comunali, nei voivodati, in Parlamento. Quando si sono riunite nel quarto “Forum nazionale dei Consigli delle donne”, a fine marzo, siamo andate a trovarle. La biblioteca di Piasecno, alle porte di Varsavia, intorno ai tavoli imbanditi di insalate con i cetrioli, piatti di sushi e hummus, pullula di consigliere locali, assessore, attiviste che discutono su come garantire l’eguaglianza nei posti di lavoro o in politica.Davanti ai termos col caffè intercettiamo l’avvocatessa Danuta Wawrowska, con la sua inconfondibile chioma bionda e gli occhiali rosso fuoco. Sorride spesso, le sue iniziative epiche hanno liberato molte donne dalla cupa solitudine delle battaglie per gli alimenti e contro lo stupro. Per anni ha bussato a ogni governo perché le donne ottenessero gli alimenti: «Pensi che i datori di lavoro erano spesso conniventi con i mariti e gli davano una parte dello stipendio in nero per aiutarli a evitare di pagare un assegno alle mogli», ci racconta, scuotendo i riccioli biondi. Wawrowska è riuscita a far approvare una legge che introduce il carcere, per gli uomini che si rifiutano di pagare l’assegno per il mantenimento alle ex mogli. «Abbiamo fatto passare il principio che erano soldi sottratti a un milione di bambini». Il caffè, nel frattempo, si è raffreddato, ma la discussione sul palco sta diventando sempre più interessante: la consigliera comunale di Piasecno, Ewa Lubianiec, sta spiegando come candidarsi efficacemente alle elezioni locali.Poi è la volta dell’attivista e rappresentante del “Forum delle donne” Iwona Janicka, che illustra nel dettaglio come ottenere fondi europei per l’eguaglianza.Il nemico internoAlla riunione delle consigliere e attiviste del “Forum” non può mancare Marta Lempart, una delle madri delle piazze contro il bando dell’aborto, tra le fondatrici dello “Sciopero delle donne”. Sulle sue larghe spalle gravano ancora più di cento denunce dei politici del precedente governo, ma Lempart non si scoraggia mai. Ed è venuta al “Forum delle donne” perché c’è ancora bisogno di agire, di confrontarsi e di indignarsi: «La liberalizzazione dell’aborto resta un traguardo tutto da costruire. Ma noi puntiamo intanto a una legge che lo depenalizzi». Nei primi mesi del governo Tusk, Lempart ha dovuto incrociare le spade con il più grande sabotatore della riforma dell’aborto, cuore della battaglia politica dello “Sciopero delle donne”. E non è qualcuno dell’opposizione del Pis o qualche cardinale arrabbiato, bensì Szymon Holownia, il cattolicissimo leader di Terza via, uno dei due partiti con cui Tusk si è alleato per formare il suo governo. «Holownia boicotta ogni tentativo di far approvare una legge a favore dell’interruzione di gravidanza», riassume Lempart. E non è un dettaglio: il capo del partito di governo è lo speaker della Camera polacca. È lui che decide la calendarizzazione delle leggi. E in questi mesi ha sempre rimandato ogni discussione sui quattro disegni di legge sull’aborto che languono in Parlamento.La prossima settimana, però, potrebbe arrivare una prima, importante svolta. Ce la rivela al telefono Dorota Loboda, una delle più battagliere parlamentari di Coalizione civica, una delle liste che sostengono il Po di Tusk. «Martedì, per la prima volta dagli anni ’90, discuteremo in Commissione una proposta che riguarda l’interruzione di gravidanza. È una riforma che depenalizza l’assistenza all’aborto», ossia la barbarica legge voluta dal Pis che prevede tre anni di carcere per chiunque aiuti una donna ad abortire. «Per ora non abbiamo una maggioranza per liberalizzare l’interruzione della gravidanza, ma siamo riusciti a convincere la maggioranza dei colleghi in Commissione a votare una legge che perlomeno cancelli la sanzione penale per le madri, gli amici, gli attivisti o chiunque aiuti una donna a farlo». Il voto sarà un po’ sul filo: 15 parlamentari della maggioranza contro 12 dell’opposizione, «e non si sa se i 4 colleghi di Terza via voteranno tutti a favore». Loboda è ottimista che la riforma possa approdare a luglio o a settembre nella plenaria del Parlamento. Anche se dopo, come per quasi tutte le riforme del governo in carica, pende la spada di Damocle del veto – già minacciato apertamente – del presidente della Repubblica Duda. Ma tant’è.Un dettaglio importante, che Loboda vuole mettere in evidenza, è che la depenalizzazione «toglierà ogni scusa ai medici che si rifiutavano finora di assistere le donne in pericolo di vita». In Polonia, negli otto anni del Pis, almeno nove donne sono morte di setticemia, hanno perso la vita tra dolori atroci per i feti morti in grembo. «I medici non potranno più esimersi dall’aiutarle, se saranno in pericolo di vita», sottolinea Loboda. Nei mesi scorsi, la ministra della Salute Izabela Leszczyna era già intervenuta su quei dinieghi del tutto illegali. In Polonia l’aborto è consentito solo in due casi: se il feto o la madre rischiano di morire oppure se la gravidanza è frutto di uno stupro. I medici, però, hanno evitato per anni di salvare le donne incinta con la scusa delle sanzioni penali – che non sarebbero scattate in nessun caso. Ma di recente è arrivata una sentenza da mezzo milione di zloty contro uno degli ospedali che si era rifiutato di salvare una donna che era in pericolo di vita. «E con la legge che approveremo, auspicabilmente a breve, spero che i medici la smettano di far morire le donne». Sempre che Duda non ponga il veto anche su questo spiraglio di civiltà.