29 maggio 2024
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Biografia di Marco Tutino
Marco Tutino, nato a Milano il 30 maggio 1954 (70 anni). Compositore. «Appartenente alla cosiddetta corrente neoromantica» (Treccani). Dal 2006 al 2011 sovrintendente e direttore artistico del Comunale di Bologna, già direttore artistico del Teatro Regio di Torino (2002-2006). Tra le sue opere: Pinocchio, Cyrano, Le vite immaginarie, Federico II, Il gatto con gli stivali, La Lupa, The servant, Senso, Le braci, La Ciociara, ecc. «Pierino della lirica» (Giuseppina Manin).
Vita «Ricordo con certezza cosa sia stato a spingermi definitivamente a scegliere la professione del musicista. Le opzioni che mi frullavano in testa, all’inizio degli anni Settanta, erano vagamente avventurose e poco concrete: lo scrittore, la rockstar, l’attore, il regista cinematografico… cose così, niente a che fare con il medico o l’avvocato. […] Sta di fatto che da quando io possa ricordare, e cioè da circa il 1958, intorno ai quattro anni, la musica si era infilata nelle mie giornate dagli spiragli più disparati: in casa c’era un padre che adorava la musica classica e appena poteva mi proponeva, su vinile, Beethoven o Vivaldi, e un suo primo cugino, Niccolò Castiglioni, era uno dei compositori più noti e apprezzati della sua generazione. Io diventai presto un ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones (ancor di più Lucio Battisti) e tentai una spericolata carriera come cantautore folk, riuscendo persino a farmi produrre un 45 giri e un long playing dei quali mi vergogno tuttora. Carriera fortunatamente naufragata in una di quelle mezze balere della bassa lombarda quando, dopo un disastroso concerto, il mio “impresario” scappò con la cassa senza nemmeno lasciarmi i soldi per un taxi. La mia adolescenza fu turbolenta e indisciplinata. Mi ero lasciato coinvolgere nella febbre del ’68, diventando la mascotte del movimento studentesco milanese e partecipando a ogni manifestazione più o meno tumultuosa con l’incoscienza tipica di quella stagione della vita. Feci in tempo a presenziare alle prime riunioni nelle quali si cominciava a percepire il cattivo odore della lotta armata; e quando vidi il cervello di Giannino Zibecchi, un giovane insegnante di educazione fisica, adagiato sul pavé di corso XXII marzo a Milano, decisi che non volevo più saperne di rivoluzioni e di lotte di classe. Ma non fu solo la violenza così estrema a farmi allontanare; piuttosto un senso crescente di estraneità e di noia profonda nel sentire ripetere all’infinito slogan sempre più privi di senso della realtà e di proposte costruttive. Avevo anche percorso l’Italia insieme a una compagnia teatrale, il Collettivo Bertolt Brecht, piuttosto scalcagnata, nella quale recitavo e suonavo la chitarra in spettacoli genericamente di protesta o in testi teatrali brechtiani quali La linea di condotta o Il cerchio di gesso del Caucaso; ma francamente non mi era sembrata una prospettiva di futuro entusiasmante. Fu soltanto una sera di febbraio del 1971 a cena con mia madre in un ristorante di piazza San Babila, che la mia vita si divise in un prima e in un dopo, con una forza inattesa. Non che i nostri rapporti fossero idilliaci: in verità non parlavamo granché di cose personali. Ma immagino che ogni tanto le piacesse recitare il ruolo normativo, e quella volta lo interpretò molto bene. Fu molto convincente e spietata nell’analisi di ciò che chiamava “dilettantismo”, praticamente tutto quello che avevo tentato fino ad allora, in opposizione a ciò che chiamava “mestiere”, esattamente ciò che avevo evitato di affrontare. […] Mi convinse. Far bene una cosa, anche se apparentemente non fondamentale per i miei simili, nella mia visione del mondo di allora era un’idea sufficientemente snob da poter essere presa in considerazione. [...] Per questo, dopo quella cena, mi iscrissi al Conservatorio di Milano, nella classe di flauto di Marlaena Kessick, e poco dopo nella classe di composizione di Azio Corghi prima e Giacomo Manzoni poi. Sempre per questo smisi di suonare il flauto un anno dopo il diploma – capii che non sarei mai diventato un grande flautista – per dedicarmi soltanto alla composizione. Ma, soprattutto, fu grazie a quell’idea suggerita da mia madre e impressa nel posto giusto del mio cervello che quando in una sera di lavoro del 1972 (vendevo libri per conto di Einaudi nell’ultimo foyer del Teatro alla Scala) decido casualmente di mettere per la prima volta la testa dentro la “piccionaia” e arrivo giusto in tempo per la scena dei congiurati del Ballo in Maschera di Verdi – direttore Gianandrea Gavazzeni, regia di Franco Zeffirelli, scenografia di Renzo Mongiardino. Cantano Lou Ann Wycoff, Margherita Guglielmi, Viorica Cortez, Plácido Domingo, Piero Cappuccilli, Luigi Roni –, la prima cosa che penso è: ma quanta gente ci vuole per fare un’opera? Conto settanta persone in orchestra, altrettante se non di più nel coro. Più i solisti in palcoscenico, circa sette quella volta. E poi immagino quante persone nascoste dietro le quinte a movimentare le scene, regolare le luci, suggerire, far entrare i cantanti, dare il via o fermare qualcosa. E quante sarte a vestirli, truccatrici a truccarli, calzolai a calzarli. […] Allora non ho il minimo dubbio: quello sarebbe diventato il mio Mestiere. E prima o poi, avrebbero eseguito un’Opera scritta da me in quel Teatro, promesso. Avevo diciott’anni» (dall’autobiografia Il mestiere dell’aria che vibra, Ponte alle Grazie, 2017) • «Un tempo marchiato a fuoco con l’appellativo di neoromantico solo perché non faceva musica atonale in voga nelle sale da concerto tra gli anni Settanta e Ottanta, è uno dei più prolifici giovani operisti europei» (Francesca Pini) • «La definizione di neoromantico mi ha sempre fatto ridere, perché era un’invenzione giornalistica. Certo, Nono o Stockhausen, senza nulla togliere a questi intellettuali che stimo, hanno fatto un mestiere diverso dal mio. Non credo che la storia della musica abbia tratto alcun beneficio dal loro operato, anzi nessun impulso per il futuro» • «Da sempre, prima ancora che si dedicasse alla musica, è affascinato dal mondo delle fiabe: da quel mondo fantastico che coinvolge i bambini, una sorta di “manuale esistenziale – osserva – che guida il piccolo uomo nella ricerca di sé”» (Armando Caruso) • «Molti si convincono che un compositore sia chiuso nel suo mondo e ogni tanto sforni un’opera. Non è così. Scrivere musica è un lavoro come un altro. Mi chiedono di comporre un’opera per ragazzi ed io, da professionista, mi metto al lavoro. Certo, ci si diverte di più a scrivere per i ragazzi, perché il loro è un mondo libero, incontaminato e il compositore si sente libero di non prendersi sul serio, di scherzare con la musica. Ad essere seriosi ci si annoia mortalmente, si diventa egocentrici, si perde il senso della realtà della vita» • L’opera che avrebbe voluto comporre? «Ce n’è una che avrei voluto scrivere io in modo viscerale: Falstaff di Verdi. La perfezione della drammaturgia musicale applicata al teatro. E Il Cavaliere della Rosa di Strauss, per la capacità evocativa insita nella musica e nel testo. Ci trovi la malinconia inarrivabile, l’epoca storica che si sgretola, i momenti impalpabili che sono dentro ognuno di noi» (da un’intervista di Valerio Cappelli) • Nel 2011 ha inaugurato la stagione al teatro Massimo di Palermo con Senso, per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia. Per il 2014-2015, il Teatro dell’Opera di San Francisco gli ha commissionato una nuova opera, tratta dalla Ciociara di Alberto Moravia. È la prima volta, dopo Puccini, che un teatro americano commissiona a un compositore italiano un nuovo lavoro • Musicò la preghiera recitata da Karol Wojtyla ad Assisi nel 2002: «Il 2 aprile 2005 ero in macchina, accesi la radio e sentii che stavano trasmettendo il mio brano Canto di pace. Allora compresi che papa Giovanni Paolo II era morto» • Nel 2007, sovrintendente del Comunale di Bologna da meno di cento giorni, decise di mandare in scena la Bohème in programma, nonostante lo sciopero degli orchestrali, con il solo accompagnamento del pianoforte. Una scelta che Sergio Cofferati, sindaco di Bologna e presidente del teatro, condivise («fa bene il teatro a non arrendersi alla decisione di una sola di quattro organizzazioni sindacali, che impedisce di offrire un servizio») • Nel luglio 2008 altro sciopero degli orchestrali «per l’ennesima volta mobilitati e preoccupati per la situazione e il futuro economico»: questa volta nulla valse a salvare la rappresentazione dell’opera in due atti Jackie O. «Brutta annata quella per il Teatro lirico, così costellata di minacce di scioperi, relazioni sindacali al minimo e una crisi finanziaria ammessa dagli stessi vertici della Fondazione del Comunale» (Luca Sancini). Forza Italia si spinse a chiedere il commissariamento del Comunale per le «numerose difficoltà gestionali mostrate dal sovrintendente e direttore artistico Marco Tutino» • Dal 2009 al 2011 al è stato presidente dell’Anfols, l’associazione che riunisce tutte le fondazioni liriche italiane • Nel 2022, per il trentesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino, ha composto e messo in scena Falcone e Borsellino. L’eredità dei giusti. «Tutino, a trent’anni di distanza lei torna sul fatto che ha cambiato la storia italiana, la morte dei due giudici, nel 1993 con il Requiem per le vittime della mafia e oggi con l’oratorio per ricordarli. Cosa è cambiato? «Il mondo intero è cambiato, noi siamo cambiati, la mafia, che non è certo scomparsa, è cambiata, camuffata dietro la finanza e i traffici illeciti. Nel 1993 io ebbi l’idea di rispondere a tanto orrore con quello che sapevo fare, con la musica, e coinvolsi altri compositori tra cui i palermitani Marco Betta e Giovanni Sollima. Feci la mia valigia e arrivato a Palermo pensavo di coinvolgere le istituzioni. Mi rivolsi al Comune, alla Regione, allora esisteva pure la Provincia, al Teatro Massimo, all’Orchestra sinfonica. Tante pacche sulle spalle e un niente di fatto. Ma non mi ero rassegnato, tanto mi aveva coinvolto il susseguirsi di tanta ferocia e dissi ai giornali, mentendo, che l’idea era piaciuta e avremmo realizzato il Requiem in cattedrale. A quel punto nessuno poté tirarsi indietro. Ora mi è chiaro che nel mio destino questi due eroi, due miti che hanno travalicato ogni spessore umano, mi hanno sempre accompagnato. Io con Falcone ho parlato tante volte nella mia fantasia”» (a Francesca Taormina) • Insegna composizione presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. «I Conservatori italiani potrebbero stimolare questa fiamma ma sono stati imbrigliati in una riforma sbagliata che ha trasformato l’insegnamento della musica in una questione burocratica, parcellizzata, senza più alcun contatto col dato artistico. Noi docenti siamo costretti a svolgere le funzioni propedeutiche, generiche e gli artisti che insegnano in Conservatorio non sono sfruttati per le loro doti e peculiarità, ma devono fornire una massa di nozioni a una massa asettica e depersonalizzata. Bisognerebbe dare una svecchiata alle istituzioni e ricordare che, nel mondo attuale, non esiste più solo la figura del musicista, ma sono nate una serie di professioni inerenti comunque al mondo musicale che dovrebbero essere prese nella dovuta considerazione» (a Francesca Mulas) • Vive a Menfi. «Mi sono innamorato a prima vista di questa campagna. Ho una casa ecologica, costruita da Riccardo Agnello, e qui trovo la giusta concentrazione. Ho sempre amato la solitudine, il silenzio per comporre è fondamentale e non sono portato per la mondanità. Mi arriva l’odore del mare e questo mi basta. Mi sono deciso anche a fare il mio olio, sì un olio musicale, con l’etichetta con la mia faccia» (a Francesca Taormina).