30 maggio 2024
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Biografia di Paolo Sorrentino
Paolo Sorrentino, nato a Napoli il 31 maggio 1970 (54 anni). Regista. Sceneggiatore. Scrittore. «Quel che apprezzo nel raccontare il potere coincide con ciò che mi affascina nella vita. Il grande motore dell’esistenza sono i rapporti di forza. […] Il potere è il punto d’approdo della storia del mondo, gli espedienti per raggiungerlo una mappa per capirne le pulsioni» • «Mamma era solare, accogliente, divertente. Radiosa. Papà era poco napoletano. Zitto, introverso, mai una parola; con lampi di ironia che ci rendevano felici. […] I miei genitori erano di origine popolare, venivano dai Quartieri Spagnoli. Papà lavorava in banca, mamma a casa. […] A me Maradona ha salvato la vita. Da due anni chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta, anziché passare il weekend in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi aveva dato il permesso di partire: Empoli-Napoli. Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente. […] Papà e mamma erano morti nel sonno. Per colpa di una stufa. Avvelenati dal monossido di carbonio. Io avevo sedici anni. Mia sorella più grande, Daniela, che già conviveva, venne eroicamente a vivere per un anno con me e mio fratello Marco. Poi rimasi da solo, nella casa al Vomero. Un tempo che ricordo come un limbo. Ero quasi in stato confusionale» (ad Aldo Cazzullo). Liceo dai salesiani: «Eravamo tutti maschi, e il ricordo non è lieto né felice. L’universo femminile, in un’età decisiva per un ragazzo, non esisteva. Però la mia ossessione per ciò che è nascosto e misterioso viene da lì. I preti erano severi. Vivevano al piano di sopra, in un luogo inaccessibile, celato alla vista. Parlavamo di loro tutto il giorno. Dove andavano? Cosa facevano davvero quando andavano in ritiro spirituale negli stessi conventi delle suore di clausura? Cose così». «Rimasto orfano dei genitori, io dissi ai miei cugini, che erano per me come guide paterne, che volevo studiare Filosofia. E loro, me lo ricordo esattamente, mi chiesero: “Ma che cos’è?”. Non l’avevano mai sentita nominare, questa parola. Loro avevano una ditta di riscaldamenti. È stato come se avessi detto una parola in finnico: “Ma cos’è, Paolo? Spiegaci”. E io che tanto volevo fare Filosofia non glielo seppi spiegare, perché vaglielo a spiegare… Bofonchiai che la filosofia si occupava del significato della vita, e loro: “Aah, si tratta di quello? Allora fai Economia”. […] Allora c’era la prassi che, se tuo padre lavorava in banca (come aveva fatto mio padre), allora i figli venivano invitati a lavorare in banca anche loro. Era l’allora famoso Banco di Napoli. […] Mi chiamarono, ci fu un colloquio e fui assunto. Ma non lo dissi a nessuno, perché non ci volevo andare. Pensai: se lo dico, poi mi ci portano in manette, nella sede del Banco di Napoli» (ad Antonio D’Orrico). «L’amore per il cinema, di solito, nasce a 12 anni, il mio arrivò fuori tempo massimo, a diciannove. Prima batteva quello per la musica». «Il primo slancio nel provare a scrivere qualcosa per il cinema lo avvertii dopo aver visto Nuovo Cinema Paradiso. […] La capacità di espandere i sentimenti del film di Tornatore mi sembrò meravigliosa» (a Malcom Pagani). «Avevo iniziato a scrivere storie come autodidatta: ho comprato i manuali di sceneggiatura di Massimo Moscati in libreria, partecipavo ai concorsi per i cortometraggi. Con Ivan Cotroneo, scrittore e traduttore, mio vicino di casa, a diciotto anni abbiamo scritto il primo, per il Festival di Bellaria, si chiamava Luoghi comuni: ambientato nell’aldilà, immaginavamo che Marx, Nietzsche e Gesù si trovassero nello stesso appartamento a parlare di Dio». «Vinsero Ciprì e Maresco, ma lì ebbi forse la più grande soddisfazione professionale della mia vita. La buonanima di Alberto Farassino, su Repubblica, scrisse un articolo, e in due righe, puntandomi il nome “P. Sorrentino”, parlò benevolmente del mio corto. Ero al settimo cielo. Il ritaglio, da qualche parte, devo averlo ancora. Non ho mai più gioito così per un articolo». «Cercavo di destreggiarmi tra università e lavoro – provavo a fare lo sceneggiatore, l’assistente volontario. La gavetta, insomma. Fino a quando, a 24 anni, ho cominciato a fare lo sceneggiatore pagato: così mi sono deciso e ho lasciato l’università». «Nel 1993, quando Bassolino diventa sindaco e crea dei nuovi luoghi di aggregazione per i giovani, si unisce al gruppo napoletano formato da Mario Martone, Pappi Corsicato e Antonio Capuano» (Barbara Palombelli). «Inizia la propria carriera “sul campo” dirigendo i primi cortometraggi accanto ai registi Stefano Russo (Un paradiso, 1994), Stefano Incerti (Il verificatore, 1994) e Maurizio Fiume (Drogheria, 1995). Nel 1998 lavora anche per la televisione, scrivendo alcuni episodi per la fiction poliziesca La squadra. Uno dei primi riconoscimenti è il Premio Solinas, ricevuto nel 1997 per la sceneggiatura di Napoletani, film che non verrà mai realizzato. Con il corto L’amore non ha confini Sorrentino entra in contatto con la casa cinematografica Indigo Film, che da quel momento in poi produrrà tutti i suoi film. Il lungometraggio d’esordio, L’uomo in più, segna l’inizio del suo sodalizio artistico con Toni Servillo» (Valentina Cognini). «Il film si basava sull’idea dell’omonimia, del caso che può decidere una vita, e questa idea era declinata in due storie diverse. Certamente, però, era presente anche una forma di paura. […] La mia paura era che potessi fare quel primo film e mai un secondo, e allora, dato che avevo la possibilità di raccontare due storie, ne ho approfittato» (a Piero Spila e Bruno Torri). La pellicola fu invece molto apprezzata dalla critica, valse a Sorrentino il Nastro d’argento per il miglior regista esordiente e segnò l’inizio della sua parabola ascendente, costellata di premi e riconoscimenti: dopo il grande successo anche commerciale de Le conseguenze dell’amore (2004, protagonista Servillo) e il meno fortunato L’amico di famiglia (2006, protagonista Giacomo Rizzo), nel 2008, con Il divo, incentrato sulla figura di Giulio Andreotti (impersonato da Servillo), giunse il Premio della giuria del Festival di Cannes (presieduta da Sean Penn); venne quindi la prima produzione internazionale, This Must Be the Place (2011, protagonista Sean Penn), e nel 2014 la consacrazione definitiva, con il premio Oscar per il miglior film straniero per La grande bellezza, cantico di una Roma eterna e decadente filtrata attraverso lo sguardo del disincantato e mondano giornalista Jep Gambardella, interpretato da Servillo. Seguirono, nel 2015, Youth – La giovinezza, altra produzione internazionale con protagonista Michael Caine, e, nel 2016, l’acclamata serie televisiva Sky The Young Pope, con Jude Law, di cui nel 2020 è uscito il seguito, The New Pope. In entrambe le serie «il vero argomento che mi sta a cuore è il bisogno impellente di Dio che hanno le persone, un bisogno che trovo molto rispettabile. Per questo sono in disaccordo con chi definisce irriverente il mio approccio narrativo. Credo che il rapporto con Dio sia qualcosa di cui non si possa fare a meno, sia quando lo si afferma e sia quando lo si nega» • È invece ancora Toni Servillo a interpretare Silvio Berlusconi in Loro, uscito in due parti nella primavera del 2018. «Dopo averci tanto riflettuto, quando su Berlusconi non più al governo spensero i riflettori e calò il sipario, mi sono finalmente mosso. […] Ho pensato si potesse fare un ragionamento più lucido, più distante, più storico. […] Loro non mira a essere attuale e ancor meno ad agganciarsi alla contemporaneità della politica. Ma soprattutto non è né un’odiografia, né tantomeno un’agiografia. Non è un attacco pretestuoso, che arriverebbe tra l’altro fuori tempo massimo, né una difesa aprioristica. […] Il mio è un film sentimentale. Volevo fare un racconto sentimentale sugli uomini. […] Io sono fedele a Truffaut, che sosteneva che non tutto si può ridurre al politico, perché in ballo c’è sempre l’uomo. […] Penso che con questo film, non so in che modo e in che maniera, si chiuda un ciclo. Loro voleva essere un po’ il punto di arrivo di un mio modo, come ho letto una volta, guascone di fare cinema. E credo lo sia. Non so quando e se farò un altro film, e, se e quando lo farò, non penso che accadrà ricalcando questi miei ultimi vent’anni, perché penso che, in relazione a quel modo di fare cinema, Loro sia il film più bello che abbia fatto e che sia in grado di fare. […] Loro, per tema, ambizione, racconto e rischio era l’ultimo gradino che potevo permettermi. Mi piacerebbe rigenerarmi e tentare strade diverse, perché non si può essere sempre uguali a sé stessi» • Nel 2021 presenta in corcorso alla Mostra del Cinema di Venezia una pellicola autobiografica dal titolo È stata la mano di Dio. Ottenne un grandissimo successo, fu distribuito nei cinema il 24 novembre, poi direttamente su Netflix il 15 dicembre. Selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar nell’anno successivo, ma non vinse. «È stata la mano di Dio, Leone d’argento a Venezia e avviato a ulteriori trionfi […] è il film più personale di Paolo Sorrentino: autobiografia, romanzo di formazione di un adolescente napoletano degli anni Ottanta innamorato di Maradona e di una zia bonissima e folle (Luisa Ranieri), che passa dalla Cantata dei giorni pari di Eduardo alla tragedia. Irrompe il fato con la mano de Dios, non quella del gol “irregolare” di Maradona agli inglesi (Mundial 1986), ma quella di una trasferta del Napoli, la prima che il protagonista ha il permesso di seguire appresso al suo idolo, disertando il consueto weekend in montagna con mamma e papà: nella casetta appena comprata di Roccaraso, una fuga di ossido di carbonio uccide i genitori. Finisce un mondo corale, affettuoso e ridanciano e, oscurato da un dolore infinito, il futuro non dà segni di sé» (Paola Zanuttini). «A prima vista si potrebbe sostenere che, dopo aver rifatto La dolce vita con La grande bellezza, con «È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino ha rifatto Amarcord: una storia di formazione, ovviamente non la Romagna del Duce ma la Napoli di Maradona. Se anche così fosse, non ci sarebbe nulla di male, anzi: stiamo parlando di capolavori, e non a caso nell’ultimo film di Sorrentino Fellini è evocato, sia pure solo con la sua voce un po’ stridula, imitata perfettamente; com’è perfetta la controfigura di Maradona che tira le punizioni in allenamento (mentre il portiere fa degli zompi a caso, in particolare l’ultimo). Ovviamente, non è tutto qui. Sorrentino si è dato un compito difficilissimo, ad alto rischio: portare al cinema una storia drammatica, la propria, la morte dei genitori, il modo casuale in cui lui si è salvato […]. Il compito è riuscito, perché Sorrentino sa che il tono medio della vita non è il tragico, e anche la tragedia è stemperata dalla leggerezza dei protagonisti: “Marì non fare scherzi” sono le ultime parole del padre, e in effetti gli scherzi della mamma sono meravigliosi, in particolare quello giocato ai vicini di casa nordici che vivono a Napoli come in una baita. Splendide le immagini della città, dall’alto e dal mare. Bellissime le scene sospese tra riso e pianto: davanti al bambino antipatico fuori dall’obitorio; nel carcere con il contrabbandiere (l’amicizia con il contrabbandiere e l’iniziazione per opera dell’anziana baronessa sono le due Napoli, quella rampante dei bassi e quella decaduta della nobiltà). Sorrentino insomma si conferma a ogni occasione il migliore regista della sua generazione, non solo in Italia» (Aldo Cazzullo) • «Analizzando i suoi film appare evidente che Paolo senta il fascino della personalità carismatica, specie quando esercita il potere in modo opaco o attraverso logiche che sfuggono alla via maestra del mondo: per il primo caso basta pensare al Divo, per il secondo al Giovane Papa, del quale ha completato la seconda serie. Questo fascino comporta prese di posizioni etiche ancora prima che estetiche, e ciò spiazza tutti coloro che si adagiano su convinzioni precostituite e ideologiche. Paradossalmente Paolo è rivoluzionario soprattutto quando celebra la tradizione, e questo lo vedi anche dal modo con cui ti riceve a casa, e ama parlare delle cose più inaspettate, raramente di cinema» (Antonio Monda) • Alcune partecipazioni come attore, ne Il caimano di Nanni Moretti, in Questioni di cuore di Francesca Archibugi e in Tre tocchi di Marco Risi • È autore di un romanzo, Hanno tutti ragione (Feltrinelli 2010), e di due raccolte di racconti, Tony Pagoda e i suoi amici (Feltrinelli 2012) e Gli aspetti irrilevanti (Mondadori 2016). «In letteratura esiste una libertà meravigliosa. Lo scrittore può fuggire attraverso linee e sentieri che la complessità e i limiti del cinema non possono sostenere. La digressione, almeno per me, è una delle cose per cui vale la pena vivere» • Gran tifoso del Napoli, la notte dell’Oscar per La grande bellezza ringraziò tra gli altri anche Maradona • Molto scaramantico, non dimentica la lezione di Eduardo: «Essere superstiziosi è da ignoranti, non esserlo porta male» • Dice le parolacce. «Soffro molto quando mi ritrovo in contesti in cui non si possono usare. Il mio eloquio si fa involuto e lungo. Con le parolacce mi esprimo in modo efficace e sintetico. E contesto che esse siano volgari» • Dice di essere timido. «Non amo eccessivamente parlare. Un po’ come certi miei personaggi che si esprimono con i gesti, i vestiti, le mise • Sposato con la giornalista Daniela D’Antonio, due figli: Anna e Carlo. Con la famiglia nel 2006 ha lasciato Napoli, «una città molto amata, percorsa da una violenza esasperante. Mi sono trasferito a Roma quando sono diventato padre: mi spaventava che i miei figli crescessero là» • «Non faccio film sui giovani, non ho mai voluto far film su persone che mi fossero vicine anagraficamente. Un po’ per formazione, per esperienza familiare, sono sempre stati gli “adulti” il mio universo di osservazione. Poi i miei temi prediletti sono la nostalgia, la malinconia, la frequentazione del ricordo, e i giovani non sono neanche così predisposti ai ricordi» (a Vittorio Zambardino). «Il mio innamoramento nei confronti di Servillo ha tante ragioni (la sua estrema bravura, per esempio), ma una per me è primaria. Toni mi fa molto ridere, e io attribuisco una importanza fondamentale al ridere. In genere, gli attori non li amo. Si dice, retoricamente, che i registi vogliono bene agli attori perché la fragilità di queste creature li intenerisce. Non è il mio caso». «Faccio un cinema d’autore non perché sono un accentratore, ma perché penso che sul set debba essere solo uno a decidere, anche se è un lavoro di molte persone. Penso che il cinema sia un’attività che escluda la democrazia: in caso contrario, quando si comincia a dare ragione a uno e poi a un altro viene fuori un pasticcio informe che sguscia da tutte le parti. Questa è un’altra caratteristica positiva del cinema: di essere l’unico luogo in cui è possibile esercitare la dittatura senza troppi sensi di colpa».