31 maggio 2024
Tags : Ascanio Celestini
Biografia di Ascanio Celestini
Ascanio Celestini, nato a Roma il 1º giugno 1972 (52 anni). Attore. Regista. Scrittore. Drammaturgo. «Se devo pensare a una missione del mio teatro, credo che sia quella di mostrare l’uomo, l’essere umano. E nella debolezza degli uomini c’è qualcosa di amaro che è bello e giusto raccontare» (a Vittorio Zincone) • «Ho un nonno carrettiere e uno spaccalegna, una nonna contadina e una narratrice di storie di streghe (il marchio, l’ho preso da lei). Mio padre era restauratore di mobili del Quadraro e mia madre da giovane era parrucchiera di Torpignattara» (a Rodolfo Di Giammarco). «Quando ero ragazzino stavo nella mia periferia, in una borgata che si chiama Morena. Non è la Roma che sta sulle cartoline» (a Gianfranco Gramola). «Il suo destino di artista e di autore narrante prende corpo in modo indelebile, come ricorda lui stesso, nel corso di pratiche verbali casalinghe metabolizzate poco a poco in gioventù. “Tutto cominciò con un ampio repertorio di storie di streghe sul quale mia nonna faceva affidamento d’istinto. Non erano fiabe di magia. Lei raccontava cose risalenti a un passato remoto e diceva che erano cose vere, ma io ebbi presto la certezza che di reale c’era soprattutto il suo bisogno di esporsi, di dire, di rendere partecipi. Notai che nonna si intratteneva soltanto con un pubblico formato da altre signore e ragazze, o da bambini. Riferiva di accadimenti ascritti a donne che avevano prerogative o poteri superiori ad altre donne, all’insaputa degli uomini cui erano legate. E suscitava stupore descrivendo milioni di aghi in un uovo, dando magari anche la ricetta di pozioni magiche… […] È lì che ho assorbito i primi germi del raccontare, della voglia di raccontare. E devo anche molto a mio padre, che però era portavoce di una realtà drammatica di tempi più vicini a noi, della guerra, incline com’era a rispolverare le vicissitudini che gli erano capitate”» (Di Giammarco). «Mio padre non fu molto contento che io proseguissi gli studi dopo il liceo. Era un piccolo artigiano, una specie di Geppetto: lavorava in una botteguccia talmente piccola, un vero e proprio buco con dentro una stufa a legna, che oggi sarebbe vietata dalla Asl, e infatti poi è morto per tumore ai polmoni. Per qualche tempo gli ho dato una mano, e la sua maggiore aspirazione era che, col mio arrivo, avrebbe potuto ampliare l’attività, aprendo un negozio dove restaurare e vendere mobili. Un lavoro senza futuro, dato che poi si è imposta Ikea. Ma io non ho accettato questo destino e, contro il parere paterno, sono andato all’università» (a Emilia Costantini). «Dopo il liceo classico a Frascati, mi iscrissi a Lettere, e sono arrivato a dare quindici esami su venti. Volevo fare al più presto il giornalista, e ho cominciato a firmare articoli sulla cronaca romana del Momento-sera, poi mi sono fatto prendere da studi e da letture di antropologia, e dall’antropologia al teatro il passo è stato breve. Un amico, Nico, mi convinse a fare un laboratorio teatrale, e intanto all’università frequentavamo il Teatro Ateneo, dove mettevano piede il Teatro Settimo di Gabriele Vacis, Giorgio Barberio Corsetti, i Teatri Uniti, Enzo Moscato. All’epoca io vendevo la rivista Sipario e ottenevo i biglietti gratis per il teatro». «Mai tentato di entrare in qualche accademia? “Ho sempre considerato le scuole ufficiali degli istituti da non frequentare, la mia formazione politica è avversa ai soloni della scena. Però ci ho provato anche io, ma mi hanno sempre bocciato. La prima volta mi presento a quella del Piccolo, e non vengo preso. La seconda vado alla scuola dello Stabile di Genova. Entrando, mi rivolgo agli esaminatori esclamando ‘Salve!’ e una commissaria mi risponde stizzita: ‘La sua esse scivola troppo’. Sono stato eliminato addirittura con la prima lettera, nemmeno la prima parola, pronunciata male”» (Costantini). «“Riuscii a frequentare la scuola di Perla Peragallo, un’esperienza grande, scioccante, appassionante. E dopo vennero i primi soldi, guadagnati in Toscana col Teatro Agricolo, imparando a fare la commedia dell’arte, il teatro di strada, le giullarate in maschera”. Nacque di lì a poco il primo vero spettacolo, Cicoria, ispirato a Pasolini, e Baccalà, Vita, morte e miracoli e La fine del mondo, che nel 2000, grazie a Mario Martone, conobbe niente meno che un insediamento con regole a norma Cee al Teatro Argentina» (Di Giammarco). «Dunque, la svolta della vita. Siamo nel 2000. […] In luglio Celestini vince un concorso per il Teatro di Roma, ha da poco iniziato a lavorare da solo e a girare in tournée: “Dopo il servizio civile ero in dubbio se fare l’antropologo o lavorare in cooperativa sul disagio, ma nel ’98 decisi di dedicarmi al teatro a tempo pieno e di vivere di quello”. Accade allora che Mario Martone, direttore del Teatro di Roma, gli propone di partecipare alla rassegna “I luoghi della memoria”. “Mi ha detto: ti andrebbe di lavorare su un libro di Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito?”. Ascanio va a comperarlo alla libreria di largo Argentina: “Il libro raccontava l’eccidio delle Fosse Ardeatine, attraverso duecento testimonianze di persone legate a quella vicenda: non era un’inchiesta e non rivelava niente di nuovo, ma era un libro scandaloso, perché riferiva di storie che avevamo dimenticato, cercando di inserire quei giorni del 23 e 24 marzo 1944 in un contesto più ampio, che partiva dalla Roma dell’800 e arrivava fino ai nostri giorni. E alla storia si aggiungevano le storie della gente”. […] Ne viene fuori lo spettacolo teatrale Radio clandestina: “Ho scoperto allora che l’oralità ha una sua forma: il testo parlato è elaborato quasi come un testo scritto nella scelta delle parole e nella costruzione. Quello che in letteratura chiamiamo stile c’è anche nella quotidianità della voce che parla, nei discorsi che facciamo al bar. Potrei fare una tesi su come parla il mio vicino di casa esattamente come farei una tesi su Hemingway”. Le voci raccolte da Portelli erano voci frammentarie, diverse tra loro, a volte, nelle singole prospettive, lontane dalla verità storica e distorte dalle nebbie del ricordo: “È nato lì, con quell’esperienza, il mio approccio all’evento storico attraverso il lavoro sulla memoria orale”. Sulle memorie orali, al plurale: “Mi sono accorto che la maggior parte delle persone raccontava scene molto difformi tra loro e molto lontane da quel che davvero accadde: in genere attribuivano la colpa dell’eccidio ai partigiani molto più che ai tedeschi. C’era una vulgata antiresistenziale. Dunque, io mi trovai tra due possibilità: ricostruire la realtà storica come fossi un professore di scuola media o tradire i fatti con una narrazione antistorica. Scelsi una terza via: raccontare attraverso le tante memorie contraddittorie, aderendo il più possibile alle testimonianze orali”. Quell’esperienza sarà un’onda lunga che avrà i suoi effetti fino ad anni più recenti» (Paolo Di Stefano). «Nelle storie che narrava c’era spesso la guerra, anche la guerra che suo padre Nino raccontava in famiglia: “Mio padre si metteva a raccontare nelle occasioni più varie, spesso nei giorni di festa, Natale o Pasqua, attorno al tavolo, non per scelta deliberata, ma perché si formava il contesto giusto, con un uditorio familiare che per tanti anni gli chiedeva: ‘Nino, raccontaci di quando ti ha sparato il tedesco… Raccontaci della cipolla in mezzo alla strada…’. In casa gli veniva riconosciuta questa qualità. Mio padre raccontava sempre in maniera diversa, aggiungendo digressioni e togliendo parti che in quel momento non gli sembravano interessanti. […] La voce di mio padre è entrata anche in una mia serie radiofonica di storie di vita intitolata Guerra e pace”. Quando, nel febbraio 2003, il raccontatore casalingo Nino Celestini muore, suo figlio Ascanio, che aveva registrato le sue storie, comincia a raccontare le vicende del padre sul 4 giugno 1944, il giorno della liberazione di Roma. Ne sarebbe nato, l’anno dopo, lo spettacolo Scemo di guerra» (Di Stefano). «“È una vicenda che mi raccontò lui. Era il 4 giugno 1944, giorno della liberazione dai tedeschi, e rischia di morire. In quel periodo dava una mano a mio nonno, che lavorava in un cinema sulla via Nomentana, e nella notte tra il 3 e il 4 giugno scatta il coprifuoco: non fanno in tempo a tornare a casa. La mattina seguente si incamminano per arrivare al Quadraro e per strada incontrano i tedeschi che lasciavano la città, i partigiani che gli sparavano, poi gli americani in camionetta che distribuivano sigarette e cioccolate. Mio nonno teneva un pezzo di fegato in tasca, che avrebbe poi voluto cucinare a casa, e scorge per terra una cipolla. Ordina al figlio di raccoglierla: sarebbe stata utile per unirla al fegato in padella. Mio padre si butta sulla cipolla e un cecchino, forse vedendo dall’alto di qualche finestra quel gesto improvviso, gli spara… per fortuna solo di striscio. Lo scemo di guerra è un modo di dire: ce n’erano tanti, a quel tempo, che fingevano di essere scemi per non andare al fronte”. E la Pecora nera con cui titola lo spettacolo sul manicomio? “Ho raccolto circa 200 ore di interviste a ricoverati e infermieri: sia gli uni, sia gli altri sono gli ‘ultimi’, gli indifesi, gli emarginati. È il manicomio che crea il malato di mente e non viceversa. […] La pecora nera del titolo si riferisce alla storia di un bambino che perde il sostegno familiare perché considerato uno ‘strano’: la pecora nera ha qualcosa di diverso dalle altre pecore”» (Costantini). Tra gli altri argomenti affrontati da Celestini nei suoi spettacoli teatrali, la parabola degli operai in Italia da fine Ottocento a fine Novecento (Fabbrica, 2002), il precariato (Appunti per un film sulla lotta di classe, 2006), il razzismo (La fila indiana. Il razzismo è una brutta storia, 2009), la storia italiana (Pro patria, 2012: «Racconto delle rivoluzioni e delle loro sconfitte, dalla Repubblica Romana del 1849 alla lotta partigiana, fino al terrorismo degli anni Settanta. Tre “risorgimenti” uniti da un duplice filo rosso, la disfatta e la prigionia»), il linguaggio della politica (Discorsi alla nazione, 2013: «Nel monologo alterno voci pubbliche di aspiranti tiranni a voci private di cittadini sudditi, ma non migliori dei primi»), la vita e la morte di Pasolini (Museo Pasolini, 2022). Tra gli ultimi lavori, la trilogia composta da Laika (2015), Pueblo (2017) e Rumba. L’asino e il bue (2023), in cui ha attualizzato personaggi come Gesù e san Francesco calandoli nelle periferie contemporanee («Francesco è un intellettuale organico in senso gramsciano, che aderisce alle classi subalterne e lotta pacificamente per la loro emancipazione. […] I personaggi sono povera gente, non tanto diversa da quella che incontrava Francesco nel XIII secolo»), e Barzellette (2019). «Mi affascinano come letteratura orale: al contrario per esempio delle fiabe, di cui si conosce la storia e si tramandano di generazione in generazione, delle barzellette non si sa l’origine. Appartengono al mondo onirico, e attraverso la battuta emergono le nostre paure, i desideri nascosti, proprio come avviene nei sogni» • Regista di due lungometraggi, entrambi presentati alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, il primo (La pecora nera, 2010, ispirato all’omonimo spettacolo) in concorso, il secondo (Viva la sposa, 2015) alle Giornate degli autori. «La sposa è una bellissima e biondissima attrice svedese, involontaria (?) citazione della Ekberg felliniana, una diva americana (nel film) in viaggio di nozze per l’Italia, un sogno di una vita lontana e impossibile, riflessa dai televisori davanti agli sguardi dei personaggi di Celestini, gente di periferia che si trascina fra il bar e le strade, fra uno “shottino” di vodka e uno scippo, in cerca di un senso che non c’è più. […] “Certo il riferimento a Pasolini è immediato. Le storie di vita che racconto sono simili in apparenza a quelle pasoliniane. Nicola è uno che beve, fingendo sempre di voler smettere, Anna è una prostituta che non sa chi sia il padre di suo figlio, Salvatore è il figlio di Anna e cerca di imparare le piccole truffe da Sasà, che un giorno finirà male. Soltanto che dietro queste e altre storie non c’è più il mondo e il popolo e i sentimenti raccontati da Pasolini. C’è il caso”» (Curzio Maltese) • Autore di vari libri, per lo più legati ai suoi spettacoli teatrali, e di un disco, Parole sante (2007), legato all’omonimo documentario realizzato da Celestini per raccontare la vicenda del collettivo autorganizzato di lavoratori precari del centro chiamate Atesia • Due figli, Ettore e Agata, dalla moglie Sara, con cui vive tuttora a Morena, la borgata romana dove sono cresciuti entrambi. «Non siamo mai stati persone da colpi di testa. È successo tutto lentamente, da quando eravamo entrambi diciassettenni. Siamo cambiati, è cambiato il rapporto, abbiamo affrontato l’odissea della casa, lei ha lasciato il posto all’Ibm e ora lavora con me occupandosi delle faccende concrete del mio lavoro. Io non so quanti soldi ho in tasca. Non mi capita di spendere, salvo che per i libri» • «Si definisce un ateo, però da ragazzo ha fatto il boyscout. “A parte la scemenza del boyscout che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada, mi piaceva farlo perché era un modo di fare politica attiva. […] Farei lo sforzo di credere in Dio, ma lui deve fare lo sforzo di esistere. All’inizio ho frequentato la chiesa, poi ho lavorato con gli immigrati e sono rimasto in una casa dove venivano accolti, per far loro trovare un pasto caldo, per dar loro una mano a trovare qualche occupazione… Più che con la vita ultraterrena, bisogna fare i conti con quella terrena. Siamo circondati da misteri: io stesso sono un mistero per me stesso”» (Costantini) • «Lei parla di lotta di classe. “Io non voglio la povertà diffusa: vorrei che tutti diventassero ricchi!”» (Alberto Pezzotta) • Grande passione per la bicicletta. «Concentrandomi su un freno da stringere, un copertone da sostituire o solo facendo esercizio fisico, mi vengono le migliori idee» (a Mirella Serri) • Colleziona tazzine da caffè. «Ne ho una quantità smisurata, col marchio dei produttori, che chiedo in regalo nei bar» • «Ha l’aspetto (e un pizzetto) da anarchico gentile» (Di Giammarco). «Eloquio svelto con cadenza romanesca» (Zincone) • «Un attore-narratore che non recita né interpreta ma semplicemente racconta storie a volte stravaganti fino all’assurdo, a volte drammatiche. Sono storie che non nascono dalla scrittura ma dall’oralità, dove niente va buttato via» (Di Stefano). «Non si tratta di satira o controinformazione, ma piuttosto di qualcosa di più ambizioso e a un tempo umilissimo. È una specie di anti-storia d’Italia. Racconta quello che non racconta più nessuno, il mistero e lo scandalo della vita quotidiana, assai più nascosto dei misteri e degli scandali della storia, anzi vero oggetto della rimozione collettiva. […] Anche la Storia con la maiuscola assume altri significati dal punto di vista minimo. […] Il fascino del teatro di Celestini non è soltanto nell’oggetto dei racconti. È nel talento formidabile di affabulatore, ironico e commovente, ingenuo e astuto, che ricorda a tratti il Fo giullare o il primo Benigni, quello del poetico ed esilarante Cioni Mario. Quando a teatro si fa il buio e rimane la piccola luce sul palco, il silenzio si scioglie in una vocina che incespica e ripete, s’interrompe e riparte, s’è già iniziato un gioco ipnotico che trascina lo spettatore in un mondo dove il reale è più fiabesco della finzione e le parole sorde dell’attualità, “guerra” e “pace”, “libertà” o “terrorismo”, si caricano di emozione, si gonfiano di pietà oppure luccicano di sarcasmo, nella più pura tradizione del racconto orale» (Maltese). «Uno dei rari cantastorie che sfuggono alla scuola di Fo, non solo per il suo inclinare al romanesco quanto per una dizione non personalizzata e senza implicazioni figurative» (Franco Quadri). «Attore penoso che piace a tutti» (Alfonso Berardinelli) • «Come nasce uno spettacolo di Ascanio Celestini? “Con delle interviste. Parlo con le persone, registro, prendo appunti”. E poi mette in scena i dialoghi? “No. Rielaboro le conversazioni. Mi chiudo nel mio studio e comincio a improvvisare. […] Ogni tanto registro me stesso. Ma non imparo un testo a memoria. Agli attori che vogliono interpretare un mio spettacolo dico di improvvisare quanto più possibile. E, se ne esiste uno, di cambiare il testo continuamente. Spesso è proprio nel momento in cui si fa un errore che succedono le cose migliori”» (Zincone). «Lei comunica a gente semplice e a intellettuali. Che lingua usa? “Inizialmente parlavo come mangiavo. […] Però da un certo momento in poi ho fatto mia anche la parlata di quelli da cui mi facevo dire storie di varia umanità o avventure di guerra, persone capaci di costruire vicende già di per sé teatrali, perché immaginano quello che dicono prima di riferirtelo, come un film vissuto. E ho preso a fare molto uso delle ripetizioni, che sono importanti per incidere le immagini”» (Di Giammarco). «Quando racconto penso alle immagini e alle scene, come per spiegare a qualcuno la strada per arrivare in un posto: cerchi di immaginare le vie, non le parole. Così, credo, raccontava anche mio padre» • «“Il mio lavoro consiste in una sorta di restauro dei racconti e della memoria, un percorso attraverso emozioni e ricordi”. […] I temi trattati dalle sue storie sono vari. Quali sono quelli che la attraggono maggiormente? “La relazione tra chi ha il potere e chi non ce l’ha; ovviamente mi stanno più simpatici quelli che non ce l’hanno”» (Pier Ottavio Daniele) • «Per me le persone contano più dei personaggi. È ciò che accade ai singoli che ha per risultato, poi, la complessità di drammi e tragedie di popoli. E sono convinto che il teatro è politica a prescindere dai temi. Perciò non butto nulla di ciò che vengo a sapere, e lavoro per accumulo» • «Non ho veri maestri. Gli unici che posso considerare tali sono, oltre ai miei parenti, le persone che ho incontrato per strada».