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 2024  giugno 23 Domenica calendario

Sokurov, alla ricerca dell’arte eterna


«Devo solo chiedere una cortesia», dice subito Aleksandr Sokurov, uno dei più premiati e conosciuti registi viventi. «Sono abbastanza prolisso e provo un certo fastidio quando, sui giornali, le mie risposte vengono tagliuzzate» aggiunge quindi, sorseggiando un espresso. Autore di numerosi documentari e lungometraggi – tra i più celebri, l’ ArcaRussa e Faust, premiato col Leone d’oro a Venezia nel 2011– l’artista, quest’anno, è ospite della Milanesiana, il festival ideato da Elisabetta Sgarbi.
Partiamo da Google: la prima cosa che salta fuori scrivendo il suo nome è l’aggettivo visionario.
«Leonardo da Vinci era un visionario, o Dante. L’arte, in fondo, non è altro che realizzare opere enormi. Io, da provinciale, mi sono formato con l’arte accademica: per me è importante il contenuto, visto che la questione formale è già stata risolta.
Nel cinema, oggi, si può fare di tutto, e perciò rimane la responsabilità di chi fa cultura di occuparsi dei grandi temi. Parlo di guerra e pace, odio e amore, il divino e il diabolico, i tormenti dell’anima, l’ateismo, il tradimento. E la timidezza».
Che è il tema cardine della Milanesiana, quest’anno.
«Credo di aver avuto questo problema, da bambino. Soprattutto di fronte ai miei coetanei, tutti sani e robusti. Nei miei ricordi, e in quelli di mia madre, ero un bambino taciturno. Avevo rapporti con la radio, però. Ascoltavo tutte le opere russe e italiane. Era come se facessi domande e, in qualche modo, il compositore mi desse le risposte che cercavo. I miei coetanei, d’altronde, erano interessati ad altro e io ero sì da solo, ma con me stesso. Nel corso degli anni, la timidezza si è trasformata in qualcos’altro».
In cosa?
«È un sentimento molto complesso, la timidezza, e illustra bene la differenza tra le persone: un bambino è timido di fronte agli adulti, perché li vede già grandi.
Avete mai fatto caso a quanto sianoimpacciati i politici nelle foto di gruppo? È una questione legata alle radici dentro di noi, quindi anche al proprio passato. Mi riferisco alla nostalgia di qualcosa di grande. Così come noi, dalla Terra, guardiamo l’universo, le stelle, pensando con orrore che sia tutto infinito e noi infinitamente piccoli. Ci stiamo restringendo da soli».
Quando è avvenuto l’incontro con l’arte?
«Da adolescente. Ascoltavo la radio, cercando la frequenza giusta.
Girando la manopola, una notte, mi sono imbattuto in una musica straordinaria. Immaginate una brandina, una scrivania, la radio e un ragazzino in canotta. E quella musica. A un certo punto, era come se qualcuno mi avesse stregato. E la musica andava, andava…»
E poi?
«È subentrata una nota drammatica, quindi l’orchestra, e io ho iniziato a piangere senza capire perché. Alla fine, quando la voce del conduttore ha spiegato ai telespettatori che quello che avevamo appena ascoltato fosse l’Adagio di Albinoni, ero ancora intorpidito. Da quel momento in poi, mi sono posto questa domanda: sequella musica era stata scritta così tanti anni prima, allora la gente aveva già capito tutto, e in maniera profonda. Un adolescente interpreta il mondo come un qui e ora, mentre la musica mi diceva già ogni cosa, del mondo. Dopo aver fatto questo ragionamento, ho avvertito una scossa fortissima che, forse, ha creato la mia personalità».
Come si è trasformata, in arte, quella scossa?
«Non ho dato più alcun peso agli eventi contemporanei. Per un ragazzino, questa è una scoperta intellettuale di enorme portata.
Secoli prima, la gente sentiva tutto in una maniera così profonda. Mi chiedevo: dove sono finite quelle persone? I miei coetanei erano interessati ai Beatles, ma per me nulla aveva una forma culturale valida. Ero altrove. Questo è unesempio di come un’opera possa riprogrammare l’intelletto di una persona. Si dice che, a volte, le mani sanno meglio della testa, allora, visto che parliamo di musica, il suono è più in alto del pensiero».
Se un artista non è interessato al contemporaneo, da dove prende, allora, lo spunto per creare?
«Credo che nello spazio della riflessione artistica, tutto sia già stato creato. Eppure qualcosa di nuovo accade sempre, e questo nuovo che accade è l’autore stesso. La nomenclatura dell’arte è chiara: è come se, in un grande magazzino dove tutta la merce è esposta, all’improvviso entrasse un uomo che prende in mano un paio di occhiali.
Mentre li prova, vediamo qualcosa di nuovo, eppure quegli occhiali li avevamo già visti. La forma, l’oggetto, c’era già. A essere nuovo è il contenuto, cioè l’uomo».
Tempo fa ha dichiarato di sentire la responsabilità storica del suo Paese.
«La Russia è un adolescente che sta provando vari abiti, cresce velocemente, e quindi, quei vestiti, a volte gli stanno stretti. Siamo un territorio in continuo movimento e l’Europa dovrebbe capire che, nel bene e nel male, non abbiamo ancora terminato il nostro sviluppo.
Abbiamo avuto la monarchia, quindi la Rivoluzione d’ottobre, poi hanno vinto i comunisti che, però, sono stati spazzati via. Dal punto di vista storico, ottant’anni sono un attimo.
Quando uno Stato crolla in pochi giorni, è un colosso coi piedi d’argilla. Sa che la distanza tra le grandi città, da noi, è di circa settecento chilometri?».
Che cosa intende dire?
«Nello stesso Stato, convivono ancora realtà pericolose. Penso al Caucaso dove mi aspetto che, dopo l’Ucraina, ci sarà un’altra guerra ed è una mia idea personale, da uomo che conosce la storia. O alla Cecenia, il posto più militarizzato del Paese. Tutto ciò coesiste. Come si forma l’uomo in uno spazio così? Quale regole deve seguire il potere, in questo Paese? Dei giapponesi, una volta, mi hanno spiegato la differenza tra un giapponese e un russo. Eccola: ilprimo è circondato dall’oceano, il secondo è quello che ha l’oceano dentro. Questa è l’enorme differenza anche tra noi e gli europei. Sentiamo che Putin è sostenuto dall’ottanta per cento della popolazione e non nego che ci sia la propaganda. Ma forse, la stiamo sopravvalutando. La popolazione russa è più complessa di quello che credete. E nella scelta tra atomica e trattative, secondo voi, cosa sceglierebbe il popolo russo?».
Lascio a lei la risposta.
«Churchill ha odiato per tutta la vita il socialismo di Stalin, e Stalin, per tutta la vita, ha odiato i valori capitalisti di Churchill. Ma quando la scelta era tra la vita e la morte, Churchill è andato da Stalin a cercare una soluzione. La situazione, all’epoca, era molto più complicata di oggi».
L’Italia, in tutto ciò, come la
vede?
«Ho sempre pensato che se alla fine del mondo Dio dovesse scegliere solo una piccola parte, io gli suggerirei l’Italia. Perché finché ci siete voi, riusciremo a risalire dall’abisso selvaggio in cui ci sta portando la guerra. Spero che il vostro primo ministro si renda conto di quanto sia importante, oggi più che mai, mantenere la pace e quindi la vita».
È questo, secondo lei, il grande tema del futuro?
«Gli artisti procedono per i loro percorsi e, il più delle volte, sono percorsi che conoscono solo loro.
Non si possono neanche suggerirle, le strade da intraprendere. Io, almeno, non ho mai accettato suggerimenti in vita mia. Tutto quello che ho fatto maturava dentro di me per uscire, infine, fuori».