Tuttolibri, 22 giugno 2024
Un Meridiano su Ibsen
Quando mise mano al primo dei dodici drammi borghesi raccolti nell’odierno, sontuoso Meridiano Mondadori – una sequenza che avrebbe rivoluzionato il teatro moderno – Henrik Ibsen era già celebre. Aveva alle spalle una lunga carriera di drammaturgo, poeta e operatore teatrale, culminata nei suoi ultimi lavori in versi, poemi più che opere concepite per la scena, in ogni caso poco adattabili alle convenzioni vigenti ai suoi tempi: Brand, sull’orgoglio di un uomo che sacrifica tutto a un Dio che si è forgiato in chiave di implacabilità; Peer Gynt, con le peripezie di un personaggio opposto, un monello impenitente e pieno di vita; Imperatore e Galileo, riflessione sull’impresa generosa e impossibile intrapresa da Giuliano poi detto l’Apostata, di conciliare il cristianesimo con l’eredità dei filosofi pagani. Imprese ambiziose, che incontrarono grande risonanza internazionale, ma il cui esito non soddisfece l’autore. Questi, in una lettera poi sempre citata, dichiarò al suo amico e interlocutore principale Bjornson l’intenzione, d’ora in avanti, di diventare fotografo, ossia di dire in faccia ai suoi compatrioti tutto il male che pensava di loro.
Perciò, da Le colonne della società, che inaugurò il nuovo ciclo, durato circa venti anni (dal 1875-6 al 1897-78), le regole che si diede furono: prosa; adozione delle consuetudini della scena vigenti allora, ovvero un ambiente per ogni atto, azione mostrata attraverso i dialoghi (nessun monologo, nessuna autogiustificazione di un personaggio); realismo minuto, con didascalie che descrivono arredamenti, abbigliamenti e fisico di uomini e donne. E milieu, appunto, borghese. Niente storia antica, niente eroi; e come sfondo, la provinciale, gretta Norvegia di allora, per scandagliare più profondamente la quale Ibsen si trasferì all’estero, senza rimettere piede in patria per ben ventisette anni. Una casa di bambola, per esempio, fu scritto a Roma, ma non reca nessuna traccia di quel soggiorno, se non il ricordo di un viaggio in Italia già compiuto da Helmer e Nora. Ovunque si trovasse nel suo esilio, Ibsen si guardò bene dall’immischiarsi con le condizioni del posto. Voleva solo abitare un luogo ameno, dove sentirsi isolato e protetto. Fu del tutto indifferente alle sorti della Repubblica Romana, e nel 1870 deplorò l’annessione di Roma allo Stato Italiano: «così alla fine hanno tolto Roma a noi esseri umani per darla ai politici», scrisse. Viene in mente Gore Vidal che a Ravello indicava la dimora di un altro scrittore espatriato, non meno celebre di lui: «Lì J. Fenimore Cooper scrisse L’ultimo dei mohicani». E viene in mente, naturalmente, Joyce, che da Trieste ricreò la sua Dublino. Già, proprio Joyce. Che ai primi del novecento, quando era appena uno sconosciuto aspirante scrittore, scrisse una lettera di adorante ammirazione al suo idolo Ibsen – e la scrisse in norvegese-danese, lingua che, poliglotta com’era (a differenza dai succitati Ibsen, Cooper e Vidal), aveva studiato apposta.
I drammi borghesi fecero scalpore e in attesa di trovare imitatori vennero eseguiti dappertutto, in Europa e altrove. Ma come spiega Franco Perrelli, curatore di questa preziosissima raccolta, non incondizionatamente. Spesso i testi, non protetti dal diritto d’autore, venivano rimaneggiati; in Germania la surricordata Casa di bambola fu data con un finale modificato, mentre in Inghilterra il dramma, inizialmente proibito dalla censura, aspettò dieci anni per debuttare. In Italia la prima edizione importante, con Eleonora Duse, avvenne dopo altri due anni, nel 1891. Da noi il copione era comunque noto in almeno due traduzioni uscite a stampa. Ecco dunque, spiega Perrelli, l’importanza storica delle edizioni pubblicate, prima dall’editore danese di Ibsen e poi tradotte. Ampiamente diffuse come queste furono da subito, garantirono all’autore il vero riscontro economico sui cui poté contare. Sin dall’inizio dunque questo Ibsen fu letto avidamente, anche più di quanto venisse rappresentato: giusto dunque leggerlo ancora, anche perché la forma da lui adottata, della cosiddetta commedia ben fatta, appartiene all’epoca in cui il grande nuovo rivale del teatro era il romanzo. I drammaturghi scrivevano imitando un po’ i romanzieri, e abbondando nelle illustrazioni. Checkov parla delle cravatte di Zio Vania. Inoltre sempre Perrelli, che egregiamente ha tradotto tutti i dodici drammi, spiega come Ibsen programmaticamente adottasse una lingua parlabile e facilmente intellegibile, chiedendo ai traduttori di adeguarsi alle sue intenzioni. Davanti alla parete invisibile, il pubblico guarda e si fa un’idea in base a quello che vede – che spia – ma, non ricevendo spiegazioni dirette, deve far tesoro di ogni parola che sente.
Di che parlano questi drammi? Nei primi quattro la programmatica, sarcastica polemica antiborghese è più esplicita. Nelle Colonne della società l’antica soperchieria commessa da un profittatore riemerge costringendolo a una confessione, donde la debolezza di un lieto fine appiccicato, concessione nella quale Ibsen non sarebbe più ricaduto. Incendiario ancora oggi Casa di bambola, la cui protagonista Nora una volta presa coscienza dei suoi diritti abbandona senza rimorsi marito, figli e rispettabilità. È quanto non ha colpevolmente avuto il coraggio di fare Elena degli Spettri, che nell’antefatto ha permesso a un marito orrendo e vizioso di contaminare lei e il loro unico figlio. Sempre appassionante, poi, Un nemico del popolo, in cui una comunità emargina e scaccia colui che denunciando l’inquinamento delle acque della locale stazione termale mette a rischio il benessere della cittadina, che su quelle acque si fonda.
Frequentemente allestiti ancora oggi, questi tre testi non hanno perso il loro mordente, specie quando possono contare su aggiornamenti non invasivi come la rispettosa riscrittura del Nemico del popolo da parte di Arthur Miller. Seguirono altre due pièces, lunga e complessa la prima, L’anitra selvatica, concisa e serrata la seconda, Casa Rosmer. In entrambe il passato ritorna fino a rendere il presente insostenibile, e in entrambe l’unica conclusione possibile è il suicidio. Avendo vuotato il sacco, come si dice, Ibsen si concesse a questo punto di essere meno inesorabile e più lirico; nella Donna del mare la misteriosa attrazione dell’ignoto spinge la protagonista a ripensare la propria vita sentimentale e finalmente ad accettare il proprio legame matrimoniale. Fu nel 1921 l’occasione per il ritorno alle scene di una Duse ormai anziana, che non volle dissimulare i suoi capelli bianchi. Luchino Visconti bambino che fu portato a vederla disse alla madre: «Ma non recita?» – aveva già capito tutto della modernità dell’attrice.
La vacanza di Ibsen dai temi che più gli stavano a cuore, se tale fu, durò poco, ché al centro di Hedda Gabler si staglia la sua creatura più implacabile, una donna spinta a una ferocia quasi greca dalla frustrazione della sua collocazione sociale, con i mediocri traguardi da essa imposti. Altra evasione in una sorta di vagheggiamento si ha invece col Costruttore Solness, uomo all’apice della carriera improvvisamente confrontato dalla propria giovinezza sotto forma di una giovinetta che irresistibilmente lo mette in crisi. Quindi Il piccolo Eyolf muore mentre i suoi genitori affrontano il loro rapporto. John Gabriel Borkmann racconta l’aridità di un uomo che al successo finanziario ha sacrificato l’amore. In Quando noi morti ci destiamo, infine, attesa e definitiva opera di un Ibsen ormai universalmente omaggiato e riverito, uno scultore in vacanza è raggiunto dall’antica modella dell’opera Resurrezione, che rese famoso lui ma che rubò l’anima alla donna. Ancora una volta è un passato accantonato e trascurato, ma mai risolto, che si ripropone con un peso di rimorsi intollerabili, e ancora una volta i colpevoli di non averlo saputo capire espiano con la morte, che stavolta avviene per cause geologiche, al culmine di una escursione in montagna.
Sintetizzare così questi dodici titoli naturalmente è ridicolo, tutti meritano di essere esplorati e interrogati, anche col supporto del superbo materiale di lettere, annotazioni e via dicendo di cui il Meridiano è corredato. Su questo fronte non si potrebbero desiderare più informazioni, mentre manca purtroppo, soprattutto dopo le puntuali notizie sui primissimi allestimenti dei drammi in più nazioni, una continuazione di tale fortuna scenica fino ai giorni nostri. Piacerebbe averla almeno per quanto riguarda l’Italia, che ne ha avuti parecchi degni di nota. Ma sarebbe stato un consumo ulteriore di spazio forse insostenibile.
Molti temi sono comunque affrontati nell’ampia introduzione, tra cui uno in cui non spesso ci si imbatte, riguardo i rapporti di Ibsen con il proprio paese. Perrelli cita parecchi studi recenti, soprattutto ma non solo scandinavi, che mettono in rilievo l’importanza della Norvegia nella formazione dell’autore. L’ambiente culturale e anche teatrale dove Ibsen crebbe, si argomenta, non merita, in fondo, l’epiteto di provinciale che anch’io sopra ho adoperato; e non ho grandi argomenti per sostenerlo. Tuttavia la Norvegia era senza dubbio un paese piccolo e periferico, e quando non sono digiuni di cultura questi paesi aiutano i loro artisti con sovvenzioni, borse di studio e vitalizi, come quelli di cui lo stesso Ibsen beneficiò a lungo, senza sentirsi in dovere di manifestare riconoscenza. Se grazie a lui la Norvegia non si sentì provinciale, lui proprio come tale la denunciò. Anche se, come sempre fanno gli artisti, in realtà parlava al mondo; e il mondo si riconobbe. —