Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 22 Sabato calendario

Intervista a Luigi Bruti Liberati

A Luigi Bruti Liberati, docente universitario alla Statale di Milano e autore di una Storia dell’Impero britannico (Bompiani), abbiamo chiesto di esprimersi sulle accuse di violenza sistematica mosse da Caroline Elkins al Regno Unito.
Risulta che la Gran Bretagna solo nel corso del XIX secolo condusse ben 250 conflitti armati. Era davvero così aggressiva?
«Il numero elevato corrisponde all’immensa espansione dell’Impero. Comunque Elkins ha ragione, non si può negare l’aggressività britannica. Basti pensare alle guerre dell’oppio contro la Cina o a quelle boere in Sudafrica. Il Regno Unito cerca soprattutto basi commerciali per la propria economia, ma poi l’uso della forza militare diventa fondamentale per mantenerle».
La convince il concetto di «imperialismo liberale» come una combinazione tra paternalismo, razzismo e uso intensivo della violenza?
«Qui ho qualche perplessità. Secondo Elkins la violenza era connaturata all’imperialismo britannico. L’autrice nota che il colonialismo ha dei critici, ma li liquida come ininfluenti sulle scelte politiche. Mi permetto di dissentire, perché il libro tace su un aspetto importantissimo: l’abolizione della tratta degli schiavi, che era un pilastro dell’imperialismo e procurava milioni di sterline ai trafficanti di esseri umani e ai proprietari delle piantagioni. Furono il pastore anglicano Thomas Clarkson e il deputato conservatore William Wilbeforce, persone senza potere, che indussero il loro Paese a mettere fuorilegge la tratta, mobilitando l’opinione pubblica. La loro lotta cominciò nel 1785 e nel 1807 il Parlamento di Londra abolì la tratta, trascinandosi dietro Spagna e Portogallo, poi gli stessi Stati Uniti. Quindi nel 1833 si giunse alla liberazione degli schiavi in tutto l’Impero britannico. Anche gli abolizionisti erano imbevuti di idee razziste, consideravano i neri inferiori, ma li vedevano come fratelli minori da salvare e riuscirono a emanciparli».
Non c’era solo la violenza a fondamento del sistema imperiale?
«Senza dubbio fu usata ampiamente, ma il dominio britannico non si sarebbe retto se non avesse potuto contare su altri fattori. In India il sistema coloniale s’impone con la violenza e in certi casi provoca carestie, ma lascia anche un’eredità modernizzatrice. Esposti a quel tipo di governo, gli indiani si chiedono perché siano loro negati i diritti di cui godono i britannici. Se siete la patria della democrazia, dicono gli indipendentisti ai colonizzatori, non potete negarci la libertà. Inoltre i britannici creano in India un sistema amministrativo piuttosto efficiente, costruiscono importanti infrastrutture. Lo facevano a proprio vantaggio, ma gli effetti positivi ricaddero anche sui colonizzati. Anche le istituzioni rappresentative dell’India devono molto alla tradizione britannica».
Però la decolonizzazione diede anche luogo a conflitti sanguinosi, come in Kenya e in Malesia.
«Elkins ha svolto un lavoro importante sul Kenya, portando alla luce vicende ignote al grande pubblico. All’epoca i britannici furono molto abili nell’enfatizzare le atrocità compiute dai ribelli keniani Mau Mau. Ma i bianchi uccisi da quei guerriglieri non superarono la quarantina, mentre la repressione fu massiccia e brutale, tanto che Elkins l’ha paragonata al Gulag sovietico. Poche decine di migliaia di coloni bianchi riuscirono a dettare l’agenda alle autorità. In Malesia la situazione è differente»
In che senso?
«Mentre in Kenya non ci sono interferenze esterne, nel Paese asiatico il movimento indipendentista è ispirato dalla Cina di Mao Zedong e il conflitto s’inquadra nella guerra fredda. Londra teme che la Malesia diventi comunista e reagisce usando il pugno di ferro. Si adopera anche per dividere la numerosa comunità cinese, cercando di isolare i simpatizzanti di Mao».
In Irlanda, in Palestina e in India la fine della presenza britannica coincise con spartizioni cruente. Che responsabilità ebbero i colonizzatori?
«Bisogna fare le necessarie distinzioni. Nel 1921 Londra si rende conto che non può permettersi una guerra interna come quella contro i repubblicani irlandesi. E concede a Dublino un’indipendenza che non è una separazione netta, perché il nuovo “Stato libero” rimane sotto la formale sovranità del re britannico. Ne consegue una guerra civile tra gli irlandesi che accettano e quelli che rifiutano la soluzione. E poi l’Irlanda del Nord resta nel Regno Unito, con i conflitti che ne conseguono. L’Impero lascia qui un’eredità avvelenata e impervia».
Anche in India le cose non vanno affatto lisce.
«Era il gioiello dell’Impero, gestita con una dose limitata di violenza istituzionale. Dopo la Seconda guerra mondiale, in cui i suoi soldati hanno combattuto per la Gran Bretagna, l’India acquisisce il diritto all’indipendenza. I britannici però nel frattempo hanno messo i musulmani contro gli indù, spianando la via alla divisione del Paese. La spartizione diventa inevitabile e viene gestita in modo affrettato e sbagliato. Ne conseguono scontri sanguinosi, successive guerre e un’ostilità tra India e Pakistan che dura tuttora».
Non parliamo poi della Palestina.
«Dopo la Grande guerra la Gran Bretagna riceve dalla Società delle Nazioni il mandato di amministrare diversi territori in Medio Oriente, tra cui la Palestina. Nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour aveva promesso che Londra si sarebbe adoperata per la creazione in Palestina di un focolare nazionale per gli ebrei. Quindi in un primo tempo Londra favorisce l’insediamento sionista, suscitando la reazione degli arabi. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, dando per scontato l’appoggio degli ebrei, la Gran Bretagna corteggia gli arabi. E si trova ad affrontare nel dopoguerra il terrorismo degli estremisti sionisti. Alla fine la scelta del governo laburista è la fuga, la restituzione della Palestina all’Onu, che deciderà di spartirla. Per il Regno Unito è una pagina ingloriosa, da cui scaturiscono tragedie a non finire».
Oggi nel Regno Unito si contestano i monumenti a diversi personaggi, compreso l’eroe nazionale Winston Churchill. Lei che ne pensa?
«Anche a Gandhi si rimprovera di aver usato un linguaggio razzista verso i neri quando viveva in Sudafrica. Perciò il Ghana ha restituito all’India una sua statua. Ma in Gran Bretagna contestare Gandhi per le sue affermazioni di fine Ottocento non mi pare accettabile».
E Churchill?
«Non si può negare che fosse razzista. Per esempio disse che era scandaloso vedere Gandhi, un “fachiro seminudo”, salire le scale del palazzo del viceré britannico. Ma bisogna aggiungere che il razzismo, pur avendo caratterizzato certe sue posizioni, non è la cifra predominante dell’opera di Churchill. Fu sempre un fautore a tutti i costi dell’Impero, ma anche un gigante nella lotta contro il razzismo hitleriano. Con qualcun altro al governo forse nel 1940 Londra avrebbe trattato e magari concluso la pace con il Terzo Reich. Invece Churchill si oppose a ogni ipotesi del genere. Va ricordato per dare su di lui una valutazione equa».