La Lettura, 23 giugno 2024
Farmaci e profumi nelle lettere di Gabriele D’Annunzio
La cameriera chiede: «Vuole il colapeppe?». Il Vate apprezza l’«ammirabile formazione verbale». Ironizzando, compone: poemetto d’occasione, quattro ridanciane quartine. Il giorno dopo, riferisce al suo farmacista: l’aneddoto del nome storpiato, il componimento trascritto e la consueta richiesta. Mandatemi altri flaconi di Pepto-kola (31 agosto 1932). Di quel medicamento che domina il mercato farmaceutico di inizio Novecento, al Vittoriale se ne ingolla a piena bocca (come in mezza Europa). I laboratori Robin di corso Sempione a Milano lo propagandano come «anti-neurastenico», cioè digestivo e ricostituente, «impareggiabile nelle malattie nervose, affaticamento intellettuale, debolezze senili». Il Panodorm assicura invece un «sonno dolce e tranquillo». È un barbiturico (insieme al Pepto-kola, verrà vietato come farmaco da banco alcuni decenni dopo). Gabriele d’Annunzio racconta al farmacista: «Ho il capo ottuso». E ancora: «Scrivo ottusamente». Lettera del 1930: «Abbandono anche il Panodorm. E chiedo profumi profumi profumi».
La triplice iterazione è grido e convinzione. Dipendenza olfattiva e intellettuale. Schiavitù erotica, proustiana, decadente, sociale (per il via vai di dame). E pure un salasso economico. Conti e pagamenti punteggiano quasi tutte le lettere di d’Annunzio al suo pusher d’essenze, Mario Ferrari: botanico e letterato, coltivatore di splendide gardenie di cui sovente fa dono al Comandante, ma soprattutto farmacista di Gardone Riviera dal 1921, lo stesso anno in cui il poeta approda sul Garda dopo l’impresa fiumana. D’Annunzio attribuisce a Ferrari il titolo grecizzante di pharmacopola. Ogni scambio inizia con «Caro amico». La confidenza cresce negli anni. L’epistolario va dal ’21 al ’36. Alla fine, s’accumulano oltre 170 lettere: che oggi occupano 6 raccoglitori di una collezione inestimabile di documenti dannunziani, una valanga di libri e scritti, rari e inediti. Per il Vittoriale che li accoglie, un’acquisizione monstre. «Una raccolta immensa. Un tuffo nell’ignoto. Al Vittoriale non sono mai arrivate così tante carte di d’Annunzio da quando ci arrivò lui con le sue», spiega il presidente della cittadella dannunziana, Giordano Bruno Guerri. Per catalogare i documenti ci vorrà almeno un anno. Il trasloco è finito qualche giorno fa. Arrivano da Alessandria.
Lodovico Paglieri nasce nel 1902. Dinastia di profumieri. Mette insieme un primo nucleo di cimeli dello scrittore. Suo figlio Mario (1934) eredita la passione del padre. A 12 anni legge Il trionfo della morte. Resta stregato da una passione. La perseguirà per la vita. Cacciatore di memorie dannunziane in un reticolo di fili che si intrecciano (anche) sul profumo. Nel 1923 la famiglia Paglieri crea un’acqua di colonia che avrà un successo commerciale strabiliante. Il marchio: «Felce azzurra». Brand di una storia industriale ancora attuale. Negli stessi anni (1921), d’Annunzio dà i nomi ai «Profumi del Carnaro» per la ditta Lepit di Bologna. E inventa il suo profumo, l’«Acqua nuntia», postillando gli ingredienti su un ricettario del XVI secolo.
Raccontano gli archivisti del Vittoriale: «Mario Paglieri è stato un collezionista-studioso, straordinario e misterioso per la sua riservatezza. Per tutta la vita ha acquistato i documenti più rari, grazie a una conoscenza incomparabile. La sua collezione comprende libri con note manoscritte, fogli di appunti; corrispondenze rare come quella con l’attrice Antonia Addison (in inglese, lingua inconsueta per lo scrittore); contratti, cambiali e registri del Vittoriale di cui non c’era traccia neppure qui da noi; moltissimi autografi, tra i quali un libretto della Parisina, l’opera di Pietro Mascagni, al quale non si fa cenno neanche nelle edizioni critiche; primissime tirature numerate riservate all’autore, che d’Annunzio regalava con dedica; centinaia di foto d’epoca, tra cui un album con le immagini della Figlia di Iorio di cui non si conosceva l’esistenza. E in più, una biblioteca sterminata di testi, circa 15 mila volumi, paragonabile solo a quella del Vittoriale, che andrà in Abruzzo». La Regione di nascita dell’autore ha contribuito all’acquisizione per questa parte. «Di tutto il materiale, non esiste un catalogo: Mario Paglieri aveva la sua mappa d’archivio in testa. E concedeva accesso solo a una parte minima della collezione, a qualche studioso di sua fiducia». La figlia di Paglieri, Deborah, deve aver ritenuto che l’ultima residenza del Vate fosse il luogo d’elezione per dar compimento alla missione del padre.
Al farmacista Ferrari, d’Annunzio ordina: «Mi dica se ha l’Eau d’Espagne, Le lilas pourpose e l’Origan. E mi mandi, se ne ha, tutte le Nuits de Noel». Nella lettera del 24 marzo 1925, schizza su carta una mano che indica l’etichetta appiccicata della Belle inconnue di Letheric: «Posso avere, prima o poi, alcune fiale di questo profumo?». Si duole quando entra in penuria: «Tra regali e sperperi, sono alle ultime stille delle essenze! Ha da mandarmi la solita cassetta dei profumi?». Nella stessa missiva del 1925, allega un jeu de mots dissacrante sul profumiere francese Caron, del quale consuma un profluvio di fiale: «Caro (senza n) odoramen factum est», ricalcato sul prologo del vangelo di Giovanni (Verbum caro factum est). In una successiva: «Il bisticcio per Caron, certo, è molto raffinato e perciò forse ermetico!». «Non ho più profumi. Ora prediligo quelli di Chanel, se bene scarsi e di alto prezzo. Resto però fedele ad alcune essenze di Coty» (6 giugno 1930).
D’Annunzio profuma costantemente le stanze. Fa improfumare le sue amanti. Regala profumi con una prodigalità inesausta. Non è disposto a rinunciare «a una singola stilla». Il profumo è l’essenza del superfluo. Il superfluo gli è indispensabile. Per il bilancio, un’emorragia inarrestabile. «Le accludo lire 2.000 per il solito invio. Saluti di primavera». «Accludo 2.000 lire per le altre fiale. Sto meglio, ma questo mio marzo si ritorce contro di me!». «Le mando un assegno di 16.000 lire per saldare la nota farmaceutica di luglio e la dolorosa dei Profumi» (1929). «Iersera l’ultima stilla di essenza si perse nell’odore della mia senilità... Accludo 5.053 lire a saldo della mia nota aulente. E mi lascio morire di noia sotto la pioggia del mio ultimo Ventisettembre» (1930). Vaporizza cascate di Chanel e Coty: per l’aria che respira. Per sé. Per le sue ospiti. «Mi mandi una scelta di profumi; ché non rimangono se non poche stille, per eccessivo pellegrinaggio di Badesse scomunicate».
Un capitale speso in odori. Accende faville d’ironia e di stile: «Non posso pagare oggi il conto dei profumi, assai profumato»; «Confesso che l’esser creditore è molto meno piacevole che l’esser debitore» (1929). Infine, un signorile lamento dopo un’epifania contabile: «Il mio acre stupore, a proposito del Caron, viene dall’informazione esatta che a Parigi non ha mai passato il 32 e che qui è a 100. Il margine è dunque larghissimo per l’intermediario».
Scrive in un saggio di qualche anno fa il critico e filologo Pietro Gibellini (a commento di alcune epistole intercettate prima che entrassero nella collezione Paglieri): «Nelle lettere al Pharmacopola circola anche il profumo del tempo, un profumo amaro». Il farmacista soccorre «lo scrittore “tentato di morire” con pillole, ma anche con gocce di profumo che possono allontanare dall’eros senile il sospetto della turpitudo e insufflare la forza ispiratrice per concludere la sua opera ciclopica».
Il poeta decadente osserva la decadenza del suo corpo. La rigetta. La rifiuta. La profuma. «Caro amico, come sta per morire il mio febbrile marzo — sacro all’odioso e fraudolento Stato civile — io mi rifaccio vivo per chiedere qualche buon profumo», scrive il 30 marzo 1932, appena compiuti 69 anni, e conclude: «Saluti senili, e perciò balbettanti e bavosi». Il rapporto di d’Annunzio con le donne è indigesto per la sensibilità contemporanea, anche se non differisce granché dalle corti libertine del terzo millennio.
Le lettere al farmacista saranno consultabili come tutta la collezione Paglieri: «È una tappa notevole del nostro lavoro — conclude Guerri — che possiamo sintetizzare così: lo abbiamo fatto rinascere. Quando arrivai al Vittoriale, il poeta appariva sulla stampa solo per incidenti stradali nelle vie Gabriele d’Annunzio disseminate in Italia. Ora c’è una nuova attenzione. Riceviamo 200 studiosi all’anno. Si fanno traduzioni all’estero. Abbiamo raddoppiato i visitatori, arrivando a 300 mila l’anno: non solo per i restauri e il parco rinnovato, ma perché si è riacceso un interesse. È caduto il pregiudizio sul d’Annunzio fascista o solo lussurioso. In sostanza, è stato un nostro contemporaneo: faceva scandalo a fine Ottocento. Oggi tutti vogliono ciò che lui ha anticipato: la libertà sessuale, il consumismo, cambiare idea politica. Allo stesso modo, lo abbiamo tolto dalle mani dei nostalgici del fascismo. Alcuni anni fa, fuori dal Vittoriale era pieno di bancarelle che vendevano magliette con la faccia di Mussolini e manganelli con la scritta “me ne frego”. Andai lì e dissi che dovevano vendere anche magliette di Che Guevara. Lo fecero. Poi, una volta scadute, le licenze non sono state rinnovate. Era l’altra faccia di un fraintendimento assurdo».