il Giornale, 22 giugno 2024
Fortini contro i cattivi poeti
Franco Fortini fu consulente per Einaudi dal 1947 al ’63; poi dal ’78 al 1983: nell’intermezzo, prestò manovalanza intellettuale per Mondadori (con cui, nel 1970, pubblica la sua traduzione del Faust di Goethe). Le schede editoriali che riguardano poeti spesso sudditi della propria modestia sono mirabili, un lieto capolavoro di crudeltà. Il giudizio espresso in merito al manoscritto del misconosciuto Vladimiro Bortolami (titolo: Se torna delizia porta un fiore in bocca), ad esempio, andrebbe ribattuto a diversi poeti porta-a-porta, impenitenti: «va non solo respinto ma anche cortesemente dissuaso». Impossibile dissuadere, invece, Gilberto Finzi, critico letterario del Corriere della sera, italianista, curatore, tra l’altro, del Meridiano Mondadori dedicato a Quasimodo. «Giovane non è, ha pubblicato molto; impersuadibile e incorreggibile«, scrive Fortini, riferendo di «una stizzosa petulante piccola collera culturalistica». Era il 1980 e Fortini, ultrasessantenne, aveva pubblicato le più importanti opere: Poesia e errore, I cani del Sinai, Profezia e realtà, Questo muro.
Stoicamente spietato con Federico Almansi, il pupillo di Saba, già partigiano, morto nel 1978 dopo micidiale malattia mentale «versi degni più di commozione che di stampa», Fortini sfiora il genio chiosando Renzo Dabove: «Radicalmente bischero... e certamente inguaribile... Il Dabove si destina (se si spiccia) al giornalismo (settimanali alla buona)». Di Dabove non sappiamo nulla dovremmo compilare un borgesiano almanacco degli scrittori sconosciuti, un poetario di effimere se non il memorabile titolo del suo impubblicato e impubblicabile manoscritto: Cicli mestruali e tostapane.
Quanto al resto, a tratti Fortini piglia degli abbagli. Non gli piaceva Raffaelli Baldini «sospetto di manierismo il poeta c’è ma con forti limiti», poeta più poeta di lui; malsopportava Maurice Blanchot («il linguaggio di B. è spesso acrobatico vaniloquio, oracoleggiante e fumoso, fastidioso e noioso proprio per la scarsezza o assenza di referenze utili per il lettore»); non capì il talento di Amedeo Giacomini, che aveva proposto una sua traduzione da François Villon («Ora questo Giacomini è snervato, nebbioso, con qualche endecasillabo qua e là; e neppure fedele. Tradotto così non serve assolutamente a nulla»).
Va detto che in casa editrice non gli davano troppa retta. Fortini intuisce, nel 1979, le virtù editoriali de La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec («è il sogno supremo di essere più intelligente del compagno di banco»): il romanzo uscirà cinque anni dopo per Rizzoli. Fu tra i pochi a riconoscere l’intransigente grandezza di Aesthetik des Widerstandes, romanzo monolitico di Peter Weiss, tra i grandi libri del secondo Novecento tedesco. «L’assunto il rapporto fra classe operaia rivoluzionaria attraverso la vicenda centroeuropea dal 1918 al secondo dopoguerra con le massime opere di letteratura e d’arte è geniale». Propose di pubblicarlo con il titolo La Resistenza Estetica («pericoloso ma attraente»); il romanzo è ancora orfano di editore.
I Pareri editoriali per Einaudi di Franco Fortini raccolti da Quodlibet a cura di Riccardo Deiana e Federico Masci (pagg. 256, euro 20) insegnano in sostanza due cose. La prima è eminentemente formale. Ogni gesto di scrittura del poeta foss’anche una mera scheda ad uso interno ha l’indole da bracconiere del linguaggio, reca una sorta di pirateria verbale; è bello, insomma. Nulla a che fare con la sciatteria odierna, la macelleria della lingua, d’uso-e-consumo. La seconda cosa riguarda il sistema editoriale. Un tempo gli editori mettevano gli intellettuali in batteria per forgiare il proprio canone. Oltre a Fortini, gravitavano intorno a Einaudi, tra i tanti, Claudio Magris e Walter Siti e Cesare Cases, Alfonso Berardinelli e Pier Vincenzo Mengaldo. D’altronde, Vittorio Sereni poeta più forte di Fortini era direttore letterario in Mondadori. Oggi, nelle case editrici transatlantico, è facile parlare con un kapò genericamente ignorante, ma abile nel far quadrare il bilancio più che con un intellettuale sagace, che tenti di bilanciare il catalogo che gli è dato, l’unico vero tesoro di una casa editrice.
Ad ogni modo, Fortini resta la punta di diamante di un criterio editoriale prono al più sublime conformismo (il pio Dabove è rifiutato anche per l’abuso «di un genere da cabarettistica semi-squadristica che è di alcuni futuristi»). Moguel Torga importante poeta portoghese «proposto per il Nobel» non può essere pubblicato perché «titaneggiante vitalistico misticoide», aggettivi che spregiano la consuetudine ideologica dominante. Di Georges Perec si consiglia l’immediata pubblicazione perché «il vento della moda può girare». Fortini è attento alle mode letterarie, ai modi narrativi del presente; l’idea di fondo è che il lettore deve essere educato (quando non rieducato), che il libro è sempre e comunque merce, la cultura un pollaio. Per tentare un altro «clima», la sprezzatura di chi «non ebbe mai bisogno di far parte di una scuola» e «non fece mai nulla per mettersi al passo col proprio tempo» (così Alessandro Spina su Cristina Campo in un libro ormai introvabile, Conversazione in piazza Sant’Anselmo, Libri Scheiwiller, 1993), bisognava cercare altrove. Nei libri della casa editrice Cederna, ad esempio, che pubblicava Hugo von Hofmannsthal e Rainer Maria Rilke, Eduard Mörike proprio nella traduzione della Campo e Yeats, presto chiusa, non a caso; o nel catalogo-wunderkammer, snobbish, di Franco Maria Ricci. Nasceva in quegli anni la casa editrice Rusconi: alcuni autori di allora Mircea Eliade, Pavel Florenskij, Ernst Jünger, René Guénon sono, col tempo, diventati letture necessarie. Si parla pur sempre di editoria in perdita, perdente; oggi è la monocoltura dei bestseller, dei romanzi da fiction e del loro equivalente opposto, la chicca natalizia, il libro carino, da arredamento, l’eccitante libresco per credersi intelligenti. Ma leggere è sempre un’attività degna di sospetto.