La Stampa, 22 giugno 2024
Intervista a Filippo Graziani, figlio di Ivan
È una storia tenera e tosta come il rock’n’roll quella di Filippo Graziani, che con il fratello Tommaso alla batteria per tutta l’estate suonerà le canzoni di suo padre Ivan. Una storia tenera, perché quando suo padre è morto, il 1° gennaio 1997, a 51 anni, Filippo ne aveva solo 15 e non aveva ancora preso in mano una chitarra. E tosta, come lo è stata la vita di Ivan Graziani, autore di un pugno di canzoni memorabili – Lugano addio, Agnese, Firenze (canzone triste) -, gran chitarrista e figura eccentrica della canzone italiana d’autore, provinciale per scelta – visse e morì a Novafeltria, nella Romagna delle colline – e rockettaro per elezione. Filippo Graziani è stato ospite nella prima delle due serate finali di Musicultura, il festival dedicato ai giovani cantautori che dal 1990 si svolge a Macerata e dal 2005 nello storico Sferisterio.
Come si sente a fare il padrino ai ragazzi di Musicultura?
«Molto bene, le occasioni come Musicultura sono rare e preziose. L’era social è dura per i cantautori, è raro che siano anche imprenditori di se stessi. È importante che esistano e resistano realtà in cui possono esprimersi liberamente».
Perché poi questo è un mondo che continua, appunto, a esistere…
«C’è un mondo che è raccontato, quello delle classifiche, dello streaming e del digitale, e ce n’è un altro di cui non si parla. Ma l’altra sera sono andato a sentire i Green Day e c’erano 70 mila persone, e papà è arrivato al secondo posto nella classifica delle vendite fisiche e in Top 10 in quella che mette insieme fisico e digitale. Gente vera, non algoritmi».
È che questo modo di “contare” gli ascoltatori ha conseguenze sul piano artistico.
«Il Sanremo di Amadeus era così, ci arrivavi solo se avevi certi numeri digitali. Per cui ben venga Musicultura, ben venga il Tenco, ben vengano tutti gli spazi concessi a chi decide di esprimersi senza filtri».
Com’è stato il tuo percorso?
«Tanta gavetta, ho suonato nei pub, nei bar, nelle pizzerie, ovunque. Ora ho 43 anni, ho iniziato che non ne avevo 20. C’è stato un Sanremo, un Tenco, tante cose mie e sempre il racconto delle cose di papà, che da anni è la mia priorità. Devo chiudere dei cerchi. Poi mi rimetterò a fare cose mie».
È vero che ha cominciato a suonare la chitarra quando suo padre già non c’era più?
«Avevo 15 anni quando è morto, la musica mi piaceva, ma avevo la testa da altre parti. Adoravo l’hip-hop, i Wu Tang Clan. Non ho avuto modo, purtroppo, di confrontarmi con lui sulla chitarra. Però ora lo faccio – in maniera metafisica – tutti i giorni».
Come è avvenuta la scoperta del lavoro di suo padre?
«Alle superiori ho incontrato il rock, partendo dai Nirvana e andando sempre più indietro, finché ho ascoltato Revolver dei Beatles e – come succede a tanti – lì c’è stato uno switch: ho iniziato a fagocitare dischi su dischi, anche quelli di papà, per vedere dove prendesse ispirazione. Ho trovato coincidenze incredibili: amavo la band inglese dei T-Rex e ho scoperto che papà la suonava da giovane».
La mia generazione da giovane ascoltava solo rock inglese o americano, riteneva la musica italiana…
«Una merda!»
Ecco! Ma ascoltava Graziani.
«Lo so. Papà era molto ascoltato anche dai metallari, lui ci ha scritto una ballata, I metallari, appunto. Anche ora è così: ai miei concerti vedo tanti ragazzini con la maglietta dei Metallica. Papà è ascoltato dalle persone che amano la musica».
Come affronta le canzoni di suo padre quando le suona dal vivo?
«Papà non seguiva le mode, ma era figlio del suo tempo. Io ho la fortuna di cantare e suonare le canzoni 30 o 40 anni dopo e posso metterci dentro tutto quello che ho ascoltato, una visione d’insieme. Mi posso divertire a estremizzare spunti magari solo accennati, in Pigro cito Jessica degli Allman Brothers Band. Non ricerco la filologia, non metterò mai gli occhiali rossi! Per me suonare Ivan Graziani è come suonare i Led Zeppelin».
Qual è la storia delle 8 canzoni inedite di suo padre uscite nell’album Per gli amici?
«Erano pre-produzioni avanzate, registrate bene su nastri che ora non si usano più: mio fratello è riuscito a riversarle in digitale, e io ho avuto la possibilità di produrre e arrangiare 8 pezzi di papà, in pratica ho realizzato un sogno. Ora facciamo entrare Per gli amici nel repertorio di papà suonandolo dal vivo, che è il modo più ufficiale che la mia famiglia conosca».
Nel pezzo La rabbia si racconta di questo Filippo, «bambino con le lacrime in tasca».
«Mi ci sono riconosciuto. E devo dire che è un momento di realtà, non sempre è così nelle canzoni».
I cerchi si chiudono, si diceva: sta pensando a qualcosa di nuovo?
«Il prossimo disco, il terzo, o quarto se si considera anche il live, lo farò con tranquillità, senza pormi problemi. Quando e come sarà, lo vedremo».
Sanremo 2014 (la canzone era Le cose belle) che esperienza è stata?
«Eravamo tra i giovani, siamo apparsi alla mezza e ci hanno eliminati. Ci hanno visto in pochi. Fu un’edizione sfortunata, l’ultima di Fabio Fazio. Un Festival di transizione. L’esperienza è stata bella, ho fatto amicizia con Diodato, però dal punto di vista artistico mi ha dato più soddisfazione il Tenco di quello stesso anno, che ho vinto per la migliore opera prima. Adesso il Festival è un’altra cosa, lo fanno i brand: a Sanremo anche i Ricchi e Poveri si trasformano in influencer. È la nuova era di Sanremo, l’ha inventata Morgan».
Mi pare che lei stia percorrendo una strada diversa.
«A me interessa solo migliorare come musicista, il live è la mia dimensione, quella in cui sto bene, mi riconosco, sono me stesso. Il mio obiettivo è diventare un artista che la gente non vede l’ora di ascoltare dal vivo. Per questo suonare a Musicultura allo Sferisterio è un’altra bella tacca sulla mia chitarra». —