La Stampa, 22 giugno 2024
Eleonora Binando racconta il suo inferno
«Mi chiamo Eleonora Binando. Ho subito abusi dal mio ex maestro di canto per molti anni. Troppi. Da quando ne avevo tredici. Mi sono sempre tenuta tutto dentro. Mi sono rifugiata nella malattia per sopravvivere ai ricordi. L’anoressia mi ha portata vicino al punto di morire. Oggi voglio parlare, con il mio nome. Voglio che si veda la mia faccia. Lo voglio fare per aiutare le altre. Per quelle che hanno subito violenza sessuale. Per quelle che come me lottano contro l’anoressia. A loro dico, denunciate. Parlate subito. Non tenete le cose. Quello che tieni diventa malattia. Prima vi aprite, più probabilità avete di guarire. Denunciate. La giustizia è lenta. Ma c’è».
Eleonora parla dal letto del reparto di psichiatria dell’ospedale di Ivrea. Sono le 12,45. La dottoressa le ha dato il permesso di fare una telefonata. «Ma dopo il pranzo, che qui si fa a mezzogiorno», dice. Eleonora è qui da due mesi e mezzo. Le ultime settimane sono state le più dure. Ha perso peso di nuovo e non riesce ad alzarsi dal letto. Eleonora ha saputo da qualche ora che il tribunale di Ivrea ha condannato a cinque anni l’uomo che lei aveva denunciato nel 2018 per violenza sessuale.
Si chiama Mauro Ginestrone. Ha 66 anni. Fino al 2019 era un tenore del coro del teatro Regio di Torino, poi è andato in pensione. Ha fondato associazioni culturali e insegnato recitazione da privato. «Io l’ho conosciuto alla fine della quinta elementare. Ero nelle voci bianche. Lui era il mio maestro a scuola. Aveva 33 anni più di me. Quando ne avevo tredici propose a mia mamma di farmi seguire un corso di teatro individuale. Mi dava lezioni ogni domenica mattina nel suo studio, che è sotto casa sua. Ha iniziato con qualcosa che sembrava un gioco. Voleva che gli passassi il chewing gum nella bocca. Poi ha fatto il resto».
Ginestrone ha sempre negato. «Non capisco cosa sia scattato in lei per fare contro di me accuse così infondate e indimostrabili, avevo una grave psoriasi e non potevo fare sesso», ha dichiarato al processo.
La pm Elena Parato non gli ha mai creduto. Ha chiesto otto anni per l’imputato, ottenendone cinque. I fatti più risalenti nel tempo sono prescritti. Per la procura l’anoressia di Eleonora è una «conseguenza dei fatti». E i fatti sono «violenze gravi, reiterate nel tempo, su una ragazzina che ha tentato più volte il suicidio». Una tesi rigettata dal consulente della difesa, Franco Freilone. Secondo il professore di psichiatria non esisterebbe un legame tra presunte violenze e anoressia. Ma il tribunale – presidente Stefania Cugge – ha stabilito che l’imputato è colpevole.
Questa è la cronaca giudiziaria. La storia di Eleonora è invece una storia attuale, che non è finita. Di lotta e di grande coraggio. Lei è una ragazza che non molla. «Sono malata da vent’anni, oggi ne ho 33. Soffro di anoressia da quando ho 15 anni. È successo dopo le prime violenze. Mangiavo e vomitavo. Perché dentro mi sentivo sporca. Così mi liberavo. Ho deciso di denunciarlo nel 2018. Ero in ospedale, messa molto male. Avevo saputo che lui stava per organizzare un nuovo coro per ragazze. Maggiorenni, certo, ma femmine. Ho pensato che avrebbe fatto a loro quello che aveva fatto a me. Ho chiesto alla mia psicologa di aiutarmi ad alzarmi dal letto e di accompagnarmi in caserma. L’ha fatto. Ero sempre stata in silenzio. Ma non potevo stare più zitta».
La prima rivelazione, che precede la denuncia, Eleonora l’aveva fatta alla madre. Quando era in fin di vita alle Molinette. «Mamma, ti devo spiegare il perché della mia malattia. Ma è un segreto talmente pesante che dovrai conservarlo per tutta la vita». La seconda parte del racconto è arrivata mesi dopo, in auto. Al ritorno dall’ennesimo ricovero in una casa di cura a Vicenza: «Mamma ma tu lo sai come lavora Mauro? Lo sai che usa il sesso con le persone a cui insegna?». Era l’inizio della svolta nel mezzo di una battaglia che a quel punto non sembrava più impossibile. «Perché – dice Eeleonora – quando inizi a parlare, quando racconti la tua storia, il peso non è più solo tuo. Lo condividi. Allora pesa meno. So che forse non guarirò mai del tutto. Ma posso arrivare a vivere in condizioni migliori. Finendo di studiare, viaggiando. Voglio una vita migliore».
«Sono stati cinque anni durissimi», racconta l’avvocata Giusi Paragano uscendo dall’ospedale. Ha raccontato alla sua ragazza, che per lei è più che una “parte civile”, che c’è stata una condanna. «Speriamo che la sua storia serva a infondere coraggio a tutte le ragazze che hanno subito abusi. Denunciare è la strada giusta». Lo stesso concetto, Eleonora lo dice così: «Se parli il tuo fardello diventa più leggero. Dentro di me resteranno cicatrici. Non più ferite». —