ItaliaOggi, 22 giugno 2024
Kerouac fu sbeffeggiato a Roma. Tutti gli intellò lo trattavano con calcolata crudeltà
«Forse non è Kerouac», scrive Alberto Arbasino sull’Espresso. «Forse si tratta d’un allegro ubriacone della Bowery che ha sentito in un bar il vero Kerouac raccontare di questo viaggio offerto da un editore italiano, e si è offerto di venire al suo posto». Invece è proprio lui, l’autostoppista supremo, l’autore di Sulla strada e dei Vagabondi del Dharma, il Dottore della Chiesa Beat. Ubriaco perso, smarrito, camicia a quadrettoni, pantaloni stazzonati, pancia sporgente da bevitore di birra, piagnucoloso, preoccupato per la madre ricoverata in un ospedale di New York, addormentato mentre lo intervistano. In quel remoto settembre del 1966 Mondadori ha tradotto uno dei suoi romanzi, Big Sur. È il 500simo titolo della prestigiosa collana d’autori stranieri «Medusa» (che pubblica Nabokov, Thomas Mann, Orwell, Malraux, Graham Greene). Kerouac ha accettato l’invito della casa editrice perché gli sono stati promessi mille dollari. Ne ha, dice, un gran bisogno. Tradotto in tutto il mondo, non ha mai di che «pagare l’affitto».
Prima a Milano, poi a Roma e Napoli, Kerouac è accolto come il marziano di Flaiano, che all’inizio manda in visibilio il suo pubblico e poi ne diventa lo zimbello: «A Kerua’, facce ride!». Sono quattro giorni di Passione. Vede Fernanda Pivano, sua traduttrice e grande amica. Simpatizza con Gian Pieretti, canterino simil beat dell’epoca, che introduce le sue uscite pubbliche interpretando canzoni (mal) tradotte di Bob Dylan (tra cui Rainy Day Women #12 & 35, che gl’«ispira», ma è dir poco, il suo unico hit, Pietre). Giornalisti spocchiosi delle terze pagine, che non lo hanno letto o che gli preferiscono prosatori meno esaltati e jazzistici, lo prendono sfacciatamente in giro e i dirigenti della tv di Stato, guardando passare sul piccolo schermo le sue interviste ad alta gradazione alcolica, si mettono le mani nei capelli. Kerouac, ai loro occhi, è incomprensibile, oltre che impresentabile. Sudato, sbronzo, scarmigliato, «Jack» non è un intellettuale – come dirà un giorno di se stesso Iosif Brodskij – ma un ragazzo selvaggio.
Domenico Porzio, critico letterario e funzionario Mondadori, lo accompagna in giro e, a distanza di anni, confesserà il suo disagio: «Avrei dovuto difenderlo, sottrarlo alla televisione, al pubblico, ai fotografi che lo trattavano, sapendolo inerme, con calcolata crudeltà: crocefisso dai riflettori, dai flash, dai cercatori di autografi, il suo straziato volto stava al gioco in cui lo avevano coinvolto, con un fermo e remoto dolore negli occhi. Per viltà, tutta professionale, resistetti alla tentazione d’imbarcarlo, già il giorno del suo arrivo, sul primo aereo per Boston». Alberto Arbasino, che lo intervista a Roma, non soffre invece d’alcun disagio: Kerouac, disperato, straccio d’uomo, gli appare imperdonabile. Forse non dice, come Truman Capote, che «Kerouac non scrive, batte a macchina», però lo pensa, e qualche ragione di non prenderlo troppo sul serio francamente ce l’ha, e mica soltanto per l’ubriachezza e le risposte biascicate.
Kerouac, racconta Arbasino, «deve aver letto qualcuno di quei libri antisemitici che circolavano anche da noi tanti anni fa. Ci torna sopra continuamente: una ragazza ebrea ha sposato un suo amico «per prendergli il nome»; e subito gli ha detto «manda fuori di casa quei tuoi amici mascalzoni». E anche Kafka ha rubato tutto da Dostoevskij; Einstein da uno scienziato polacco; perché gli ebrei vogliono soltanto portar via tutto a tutti. Aizzano anche i negri contro i bianchi, per poi approfittarsene». A Napoli, per avere difeso i soldati americani in Vietnam dagli attacchi inconsulti degli studenti di sinistra, si becca del «fascista» e viene cacciato da Villa Pignatelli. Sconfitto, come gli capita sempre più spesso, ma almeno più ricco di 1000 dollari, torna a casa, da sua madre, che lo chiama «mon Ti Jean», mio piccolo Jean. Morirà tre anni più tardi, a 47 anni, nell’ottobre del 1969. Nel 1968 Mondadori ha tradotto Il dottor Sax, uscito nel 1969, il suo libro più bello, superiore (se nessuno s’offende) anche a On the Road. Pochi se ne accorgono.
Alessandro Manca, con La vita è un paese straniero, ci accompagna, passo dopo passo, nei tre giorni (ma forse quattro, forse una settimana) di calvario kerouakiano in Italia. È un grande libro, anche se inutilmente schierato in difesa di «Jack» dai suoi beffeggiatori. Kerouac, come ogni altro scrittore del suo rango, in quel crudele autunno del 1966 non vuole essere «capito», e tanto meno compatito o rispettato. Vuole essere sé stesso – dare scandalo. È il suo inconfondibile modo d’aggiungere nuove glosse a margine all’infinito racconto della condition humaine.
Alessandro Manca, La vita è un paese straniero. Kerouac in Italia 1966, el Doctor Sax 2023, pp. 230, 15,00 euro.