la Repubblica, 22 giugno 2024
Il futuro di casa Guggenheim
Nella galassia dei talenti femminili alla guida dei grandi musei del mondo (da Laurence des Cars al Louvre di Parigi a Maria Balshaw in capo alla Tate di Londra) Mariët Westermann è l’ultima arrivata solo in ordine di tempo: dall’inizio di giugno infatti è entrata in carica come ceo e direttore della Fondazione Solomon R. Guggenheim e dell’omonimo museo di New York; a lei anche il compito di guidare il network che comprende la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, il Guggenheim Museum Bilbao e il futuro Guggenheim Abu Dhabi, la cui sede dovrebbe essere completata a fine 2025. Il suo è il profilo adatto a chi si trovi a capo di una serie di istituzioni culturali di primo piano nel momento stesso in cui il ruolo del museo viene messo in discussione. Olandese, storica dell’arte di formazione, ha diretto l’NYU Institute of Fine Arts e ha supervisionato la creazione del campus della New York University ad Abu Dhabi. E non è forse un caso che il suo saggio sui pittori olandesi Secolo d’Oro si intitoli A Worldy Art, con un richiamo a quella visione globale del mondo di cui proprio i Paesi Bassi del XVII secolo furono i precursori.
Lei è una studiosa di pittura olandese, ha diretto un’università negli Emirati. Cosa della sua esperienza porta nella guida della galassia Guggenheim?
«Ho fatto ricerca, lavorato come curatrice e docente e ho avuto la possibilità di far crescere un ateneo da zero ad Abu Dhabi. Tutte queste esperienze, insieme alla gestione della filantropia, insegnano a essere strategici, perché quando finanzi qualcosa devi fare delle scelte. Scelgo un progetto perché è bello? Perché attirerà pubblico? E se lo scelgo, come lo finanzierò? Ogni decisione giusta è frutto di una effettiva capacità di delega ma soprattutto della decisione di chiamare in causa la comunità: i visitatori di un museo, gli sponsor, i donatori, in una visione comune. Una visione, ci tengo a dirlo, che tenga conto della diversity. L’hofatto alla NYU e ci stiamo lavorando al Guggenheim».
Lei guida un network con sedi in città “strategiche” per l’arte come New York e Venezia, un polo consolidato come quello di Bilbao e una nuova sfida ad Abu Dhabi.
Come vede il ruolo del museo nel XXI secolo?
«Siamo in una posizione di vantaggio rispetto ai musei enciclopedici, creati nel XIX secolo, perché le giovani generazioni in particolare capiscono e amano il moderno e il contemporaneo che è il focus delle nostre collezioni. Basta guardare a ciò che accade qui a Venezia con la Biennale, per capire che gli artisti odierni sono visti come agenti di un contributo rilevante per la società.
Nel nostro Dna, che deriva dall’opera di Solomon e Peggy Guggenheim, c’è l’idea di collezionare in modo dapoter scrivere la storia dell’arte di oggi per il futuro. Con un’accortezza: i tempi in cui potevi semplicemente allestire una mostra e dire: “Eccola, guardate” sono finiti. E questo è un bene. Sono cresciuta con un approccio didattico, eppure mi dà gioia vedere il tipo di interazione molto diversa che si crea oggi con ciò che esponiamo: facciamo attività di comunità, programmi per chi non può venire fisicamente al museo, ad esempio gli anziani delle case di riposo, e molto altro».
I musei non devono avere paura di essere troppo “pop”?
«No, anzi. Non dobbiamo fare supposizioni su chi potrebbe apprezzare, vivere, sperimentare l’arte. Tutti possono avere una vita in cui l’arte ha un ruolo, e dobbiamo supportare comunità e persone diverse, invece di limitarci a offrire ciò che pensiamo vada bene per loro.
Abbiamo un alto livello curatoriale, ci occupiamo di preservare il patrimonio, e dobbiamo continuare a supportare tutto ciò mentre prendiamo coscienza del fatto che ciò che chiamerei cultura della mostra è stata sostituita dalla cultura dell’esperienza».
Come lavorano i vostri musei insieme?
«Tenendo conto delle caratteristiche specifiche. Pensiamo ad esempio al cambiamento climatico, e a come Venezia, o anche Abu Dhabi, siano in un posizione speciale per lavorare su questo tema; oppure, per restare alle collezioni, al tema dell’astrazione e al modo in cui la si può rileggere partendo dall’interpretazione che se ne dà in Medio Oriente. Poi c’è l’expertise comune sulla conservazione del patrimonio del contemporaneo e del moderno che abbiamo sviluppato, per esempio sui time based media, l’arte che ha bisogno di elettricità, o le installazioni. Il mio ruolo è quello di facilitare gli scambi, la conoscenza condivisa».
Il gusto dei fondatori vi influenza, invece, per ciò che riguarda le scelte espositive e le acquisizioni?
«La galleria fondata da Peggy a New York nel 1942 si chiamava Art of This Century. Penso che sia lei cheSolomon fossero ben consapevoli che dopo di loro l’arte sarebbe cambiata e che non ci saremmo dovuti limitare a restare nella scia del Surrealismo, o di Kandinskij. La stessa Peggy, e lo vediamo meravigliosamente qui a Venezia, cambiò i suoi gusti di collezionista nel corso del tempo. E lo stesso è accaduto al Guggenheim di New York, ad esempio con la Panza Collection. Scegliamo e supportiamo giovani artisti, ma cerchiamo di farlo anche con una nuova generazione di conservatori, curatori, educatori».
Che ruolo ha in tutto questo il nuovo museo che sorgerà ad Abu Dhabi?
«Abu Dhabi è un Paese con una popolazione giovanissima, in cui si può ragionare insieme su cosa deve essere un’università oggi, o un museo oggi, ed è un crocevia tra Europa, Asia e Africa. Si trova in un’area del mondo ad alta conflittualità, ma che ha anche mostrato grande resilienza.
Vale lì ciò che vale sempre: non possiamo cambiare il modo in cui i governi si comportano, non è il nostro ruolo, ma possiamo come organizzazione, lavorando insieme alle agenzie locali, creare un museo dove le persone sperimentino l’arte in maniera cross culturale. In qualche modo, è stato per me più facile lavorare ad Abu Dhabi che a New York, perché la nuova generazione laggiù è non solo nativa digitale, ma nativa viaggiatrice».
E tuttavia questa è un’epoca di proteste e boicottaggi che coinvolgono l’arte.
«Un museo è un’istituzione civica, aperta a tutti per principio, ma non è una piattaforma politica. Non neghiamo a priori un intervento artistico, a meno che non sia qualcosa che pretende di essere arte ma nega l’umanità di qualcun altro.
Allo stesso modo, la protesta è legittima, ma mi lasci dire che personalmente non ho fiducia in una protesta che esclude e deumanizza gli altri, e credo che anche i musei dovrebbero essere contro questo tipo di atteggiamento. Abbiamo valori che ci permettono di abbracciare uno spettro molto ampio di cause, valori che possono continuare a guidarci, e aiutarci a discernere».