la Repubblica, 22 giugno 2024
Intervista a Silvio Garattini
Sono rari in Italia i medici che vengono riconosciuti e fermati per strada. Silvio Garattini, 95 anni, ha appenafinito di parlare con una coppia all’uscita della stazione Termini a Roma. «Sono preoccupati per le sorti del nostro sistema sanitario» racconta. Anche in un torrido mezzogiorno il fondatore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano indossa l’inconfondibile maglia a collo alto, solo più sottile rispetto alle versioni invernali. «Ha sempre risparmiato a mia moglie il lavoro di stirare le camicie. Ed è comoda in viaggio» spiega, camminando con passo agile e salendo le scale a piedi.Qual è il suo rapporto con le medicine?«Non ne prendo, a meno che non siano davvero necessarie».E con il cibo?«Due biscotti stamane a colazione. A pranzo nulla, a volte una spremuta di frutta. Dopo cena mi alzo da tavola con un leggero senso di fame, come consigliavano i nostri nonni. Carne rossa o alcol solo raramente, ma nel caffè un cucchiaino di zucchero lo metto volentieri. Nessuna privazione, mangiare poco diventa presto un’abitudine. Infatti al ristorante non riesco quasi mai a finire il piatto».Nessuno sgarro?«Uno stile di vita sano previene le malattie e contrasta il mercato dei farmaci. Come tutti i mercati, lui fa di tutto per espandersi e venderci più prodotti possibili. Un anziano oggi prende in media 15 medicine. La prevenzione, in questo senso, è una rivoluzione contro il mercato dei medicinali».A volte sentendola parlare sembra quasi che abbia simpatie comuniste.«Proprio no, sono cresciuto all’oratorio di Borgo Palazzo, a Bergamo, e ho fatto parte dell’Azione Cattolica. Il comunismo è una dittatura e io non amo le dittature. Mi è bastato crescere sotto al fascismo.Tornavo da scuola raccontando tutte le meravigliose imprese del duce. Mio padre mi prendeva, mi metteva davanti a Radio Londra e mi rispiegava le cose da capo. Ha avuto le sue grane, ma mi ha insegnato a essere critico sempre. Ancora lo ringrazio».Chi era suo padre?«Aveva perso i genitori a due anni ed era cresciuto in orfanotrofio. Non aveva studiato, aveva fatto mille lavori, ma amava l’arte, infatti cantava nella filodrammatica dell’orfanotrofio. Quando mia madre e mio fratello si ammalarono, prese due impieghi contemporaneamente. Allora non c’era quel servizio sanitario nazionale che ha cambiato il volto della salute in Italia. Ho visto con i miei occhi cosa vuol dire non avere i soldi per pagarsi le cure».Per questo si iscrisse a medicina?«No, mio padre mi indirizzò verso una scuola superiore per periti chimici. Era appena finita la guerra, i soldi per l’università non c’erano. Lui mi suggerì di diplomarmi in fretta e cercare lavoro. Quel consiglio ha indirizzato la mia vita».In che senso?«La scuola per periti chimici prevedeva quattro pomeriggi a settimana al banco di lavoro.Dovevamo analizzare le sostanze più diverse. Il voto dipendeva dalla nostra accuratezza. Quando poi mio fratello iniziò a lavorare, ci furono meno ristrettezze e divenne possibile per me pensare all’università. Presi di corsa la maturità scientifica e mi iscrissi a medicina. Saper analizzare ilcomportamento dei farmaci all’interno dell’organismo mi aiutò.Non molto tempo dopo la laurea ebbi la cattedra all’università di Milano».Vuol dire che studiò tutto il programma di latino da solo?«Sì, per entrare all’università all’epoca era necessario il diploma di liceo. Ma mi aiutò una giovane laureata che più tardi sarebbe diventata mia moglie. Abbiamo avuto 5 figli, ai quali si sono aggiunti 5 nipoti. A Natale siamo in trenta».E il Mario Negri come è nato?«Dal Cnr nel 1957 avevo avuto unaborsa di studio per gli Stati Uniti. Lì vidi che la ricerca poteva essere un vero mestiere. Noi all’università di Milano ce ne occupavamo a tempo perso, con fondi americani del piano Marshall. La burocrazia era pesante, mentre negli Usa si usava la forma più agile della fondazione. Quando Mario Negri, un gioielliere di via Montenapoleone a Milano interessato anche all’industria farmaceutica, vedovo e senza figli, venne da noi per l’analisi di alcune molecole, gli parlai della mia idea.Ero abituato ai no e ai sorrisetti dicircostanza, così non mi stupii quando andò via senza dir niente.Alla sua morte, nel 1960, scoprimmo che ci aveva lasciato 100 milioni di lire, più le azioni della sua industria farmaceutica. L’istituto poteva nascere, indipendente dalla politica e con le regole di non brevettare e pubblicare tutti i risultati. Quella di Mario Negri non è stata l’unica donazione indimenticabile. Più di recente, una signora ci portava un assegno da mille euro a Natale.Quando poi nel testamento ci lasciò tutti i suoi averi – non più di 5mila euro – mi commossi».Dopo aver vissuto il fascismo vero, come giudica questo ritorno della nostalgia oggi?«Ho una critica da muovere alla scuola, perché è lì che si forma la nostra cultura. Il nostro è un sistema di insegnamento rivolto al passato.Studiamo le nostre radici, ma non sappiamo nulla dell’epoca moderna, tantomeno del futuro. Un ragazzo di oggi non è informato di cosa è stato il fascismo. Non conosce la differenza fra democrazia e dittatura. Non studia nemmeno la scienza, se non appunto come storia. Imparare come funziona il metodo scientifico, come facciamo a capire se una cosa ci fa bene o ci fa male, non è percepito dalla scuola come uno dei suoi obiettivi. Ecco che allora si crede alle stupidaggini che passano su internet.Con il nostro insegnamento rivolto al passato, i ragazzi rischiano di non imparare a pensare al futuro. Un giovane che fuma oggi non ha chiaramente la visione di cosa gli accadrà domani.Ricordo anch’io di essere stato tentato, da giovane, quando i soldati tornavano dal fronte con le sigarette che avevano ricevuto in regalo dall’esercito e le offrivano.Rifiutarle voleva dire sentirsi escluso, ma non mi sono mai pentito».Siede nel Comitato di Bioetica.Uno dei temi più sentiti è il fine vita.Che direzione prenderà l’Italia?«Per quanto riguarda il mio ruolo seguirò un principio che mi accompagna sempre: “ama il prossimo tuo come te stesso”.Presiedo un’associazione ad Aviano, la Via di Natale, che assiste alcuni malati terminali del vicino centro oncologico. I volontari fanno cose incredibili per loro, ricostruiscono le camere che i pazienti avevano a casa, se glielo chiedono, o li portano al cinema in barella. Nessuna delle 3mila persone passate lì in 25 anni ha mai chiesto di essere aiutata a morire. Credo che una buona assistenza, soprattutto per la gestione del dolore, possa ridurre queste richieste a numeri residuali. I pochi che veramente non ce la fan no dovrebbero avere il diritto di essere aiutati a morire. È quello che vorremmo per noi stessi».Ha progetti per il suo futuro?«Cerco un equilibrio tra la consapevolezza che domani mattina potrei non esserci più e la voglia di fare progetti per i prossimi 10 anni.Ora lavoro a un istituto in Africa che selezioni alcuni laureati, gli permetta di fare un dottorato al Mario Negri e poi li faccia tornare a dare una mano nei paesi d’origine. Spero che i primi ragazzi riescano ad arrivare a Milano in autunno».