la Repubblica, 22 giugno 2024
Le carambole di Enrico leader riluttante innamorato dell’Europa
Nella vita di Enrico Letta i colpi di carambola sono un’abitudine. Mica doveva fare il presidente del Consiglio. Il candidato alle elezioni del 2013 era Pierluigi Bersani, segretario del Partito democratico, poi il voto fu un mezzo pareggio, i numeri per governare non c’erano, arrivarono pure i cento e uno impallinatori di Romano Prodi al Quirinale, Bersani si dimise e Letta si ritrovò a Palazzo Chigi a capo di un governo di grande coalizione. E mica doveva fare il leader del Pd, stava bello e sereno, stavolta non renzianamente, a Parigi a insegnare agli studenti dell’università di Science-Po, solo che Nicola Zingaretti decise che il segretario dem non voleva farlo più nemmeno pagato, e i maggiorenti disperati per il vuoto di potere richiamarono Letta dall’autoesilio francese. È solo grazie al colpo di testa di Zingaretti se, meno di due anni fa, ha potuto correre alle elezioni da candidato premier, il sogno di una vita, anche se le condizioni della corsa non erano quelle ideali che si era immaginato fin da quando aveva i calzoni corti. Nessuno può dire ora se Letta sarà il nuovopresidente del Consiglio dell’Unione europea. Dovesse succedere, però, sarebbe un altro mirabolante effetto carambola: fuori il favorito portoghese Costa, un veto su quello, l’inciampo dell’altro e ci risaremmo: Enrico, tocca a te.
Comunque vadano le cose, all’ex leader dem va riconosciuta una qualità speciale: sa rialzarsi dalle sconfitte e ricominciare. Con pazienza, umiltà, tenacia. Già dopo il golpe renziano del 2014 pareva finito. Pure la batosta del 2022 è stata micidiale. Ma Letta è ripartito, sempre a fari spenti, mai una parola di fiele, anche se gli sgarbi non li dimentica. Vale pure il contrario: superfluo chiedere opinioni a Matteo Renzi, il cui ultimo contatto con Letta fu la telefonata in cui l’allora leader del Pd confermava a quello di Italia viva la volontà di tenerlo fuori dalla coalizione elettorale. Anche nel Pd c’è chi ancora gli rimprovera di aver apparecchiato il percorso congressuale a uso e consumo di Elly Schlein, di fatto battezzandola alla successione.
Letta si è guadagnato un incarico, la relazione sul mercato unico europeo, che lo haportato a visitare tutti i 27 Paesi dell’Unione più un’altra manciata interessati agli effetti della ricerca. Ha tenuto il conto: toccate 65 città per un totale di 400 incontri. «È stato il più bel viaggio della mia vita», ha detto a tutti quelli che gliene hanno chiesto conto. Parte di questo tour nel nome di Jacques Delors, nume tutelare del mercato unico europeo, è raccontato in un libro che sta per uscire, Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa, casa editrice Il Mulino, con una tempistica perfettamente allineata ai tempi delle nomine europee: il 25 giugno Letta presenterà illibro a Bologna insieme a Romano Prodi, suo secondo padre politico dopo Beniamino Andreatta, e all’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, il 2 luglio il volume sarà in libreria.
Certo non è una missione che Letta ha intrapreso con l’idea di trarne una nomina a Bruxelles, ma sarebbe ingenuo pensare che non lo possa aiutare. Ha avuto colloqui con quasi tutti i capi di Stato e di governo, amici e meno. In Francia e Germania conosce personalmente tutti, ma è stato anche nell’Ungheria di Viktor Orbán e nella Slovacchia di Roberto Fico. Si è trattenuto a lungo nei Paesi Baltici. In Lituania ha scoperto che in una piazza centrale di Vilnius, si chiama Piazza della Libertà, c’è un monumento alla Nato e non ha potuto fare a meno di chiedersi cosane sarebbe stato, di un monumento del genere, in una delle capitali occidentali in cui l’Alleanza atlantica è ritenuta da molti responsabile della guerra in Ucraina quanto, ma spesso più, della Russia di Vladimir Putin. Le politiche comuni di difesa sono un punto centrale delle riflessioni dell’ex segretario del Pd.
Il suo rapporto sul mercato unico ha incassato anche il tiepido plauso di Giorgia Meloni. Con la presidente del Consiglio c’è un rapporto civile, nonostante le asperità della campagna elettorale alle ultime Politiche. Li divide quasi tutto, in termini di idee, li accomuna la formazione: vengono entrambi dalla politica delle sezioni, si rispettano. C’è una cordialità di base, testimoniata anche dal fatto che, a differenza di Elly Schlein, Letta accettò l’invito di Meloni a confrontarsi con lei alla festa di Atreju.
Se la decisione di non assumere un ruolo di guida a SciencePo è un indizio sulle ambizioni di Letta, sicuramente non è quello decisivo. Chi lo conosce sa che era comunque orientato a non prendere l’incarico, che ha formalmente declinato un paio di settimane fa e, del resto, anche avesse deciso diversamente, non sarebbe stato di ostacolo. Il ruolo di presidente del Consiglio Ue è troppo prestigioso, e Letta troppo europeista e innamorato dell’idea di riformare l’Europa, cominciando dalla revisione del diritto di veto, perché potesse dire no anche se impegnato altrimenti. Dipende dalla carambola, però, e Letta non è in alcun modo impegnato a influenzarne la traiettoria. Chi gli ha parlato della cosa, lo ha trovato scettico. Ma la palla è in movimento, deve ancora toccare più sponde prima di capire dove si arresterà.
Letta è un italiano non in linea con l’immagine attuale del Paese. Ma l’Europa è un posto dove spesso ruoli e luoghi comuni si mischiano e si rovesciano. Chiedere per conferma al tassista tedesco che ha portato in giro Letta e altri due membri della delegazione durante la tappa berlinese della missione sul mercato unico e che, a fine corsa, avendo capito di aver portato a bordo tre italiani, ha detto loro: «Pagatemi cash, siete italiani, mica svedesi».