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 2024  giugno 21 Venerdì calendario

Chiara Mastroianni, figlia di Marcello: «Quando papà si arrabbiava mi chiamava francesina. Le foto dei paparazzi sono i ricordi d’infanzia»

Ha gli occhi di suo padre, Mastroianni. L’attore che ha prosciugato i sogni di Fellini, un uomo pieno di dolce levità e grazia naturale, delizioso, sornione, un seduttore in fuga con la sigaretta penzolante, bugiardo seriale con le donne, venivano irretite dal fumo nebbioso delle sue indecisioni. «Mio padre è morto quando avevo 24 anni. Mi sono sempre sentita dire che gli somiglio come una goccia d’acqua», dice Chiara, 51 anni.
Calibra le parole con un’affabilità avvolta da rigidità castigata e un velo di malinconia, che aveva anche suo padre. Figlia di due monumenti del cinema, Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve, per tanto tempo a causa della sua gloriosa eredità Chiara risultava invisibile, lontana dai radar dei media. Ci ha messo anche lei del suo, col suo fare laterale, come se avesse paura dei suoi sorrisi.
Marcello, come here! Sono cent’anni dalla nascita di Marcello Mastroianni, nato a Fontana Liri, un paesino di nemmeno 3.000 abitanti arroccato su una collina, nella provincia di Frosinone, ciociaro come Vittorio De Sica, il figlio Christian gli somiglia in modo impressionante e lo stesso accade a Chiara Mastroianni. Adesso poi appare in Marcello mio, che è un film nel film.
Lei fa suo padre?
«Non è un biopic. È stata un’esperienza audace e diversa da tutte le altre. Volevo girare una commedia a partire dalla mia vita. Si deve fare un film per fuggire da quello che propone l’esistenza. Mia madre, che nel film è se stessa, capì subito che è una favola piena di fantasia. C’era il rischio che potesse essere una cosa triste e mortuaria, invece non c’è niente di più vivo. È stata una gioiosa seduta di spiritismo con mio padre».
A un certo punto nel film le chiedono di essere un po’ meno Deneuve e un po’ più Mastroianni.
«È la regista Nicole Garcia che mi fa un mezzo rimprovero: speravo che recitassi più Marcello che Catherine. E così mi trasformo fisicamente. Mi vesto come lui, parlo italiano, bevo il suo amato whisky, ho la sigaretta sempre in bocca, vado in giro con un cane. Mi faccio chiamare Marcello, e chi mi sta intorno comincia a crederci. Ma io lo evoco, non lo imito. Buffo, no? D’altra parte in lui, per la sua naturalezza, tutte le incarnazioni e volatilità erano possibili. Ho ritrovato sensazioni conosciute, è un film decisamente proustiano. Quando perdiamo una persona cara, chi di noi non pensa: se potessi ancora dirgli qualcosa...».
 
Chiara Mastroianni nei panni del papà in una scena del film «Marcello mio»
Cosa gli direbbe?
«Posso dire di cosa ho avuto voglia. A 16 anni ho avuto voglia di andare oltre, in questa somiglianza fisica di cui mi hanno sempre parlato così tanto. Mi sono tagliata i capelli per assomigliargli ancora di più, senza avere il risultato sperato. In ogni caso capisco intimamente la metamorfosi del mio personaggio, è come se il regista avesse avuto accesso al mio inconscio».
Quando vi vedevate?
«Papà veniva a trovarmi spesso a Parigi, poi lo vedevo d’estate nelle vacanze, oppure a Cinecittà con Fellini. Ero troppo piccola per capire. A casa a Roma se non lavorava le giornate per lui erano troppo lunghe e si annoiava. Si metteva spesso in situazioni private complicate».
Rivede le vostre foto insieme?
«Ecco, è proprio questo il problema. Non ho quasi immagini personali della mia infanzia con lui. Ho un rapporto morboso con le vecchie foto di paparazzi. Spesso sono associate a ricordi d’infanzia violenti, in Italia i paparazzi sono intrusivi, ti spingono per rubare uno scatto. Oggi sono molto legata a quelle immagini prese per strada, sono felice che esistano».
Cosa le manca di lui?
«È un’enorme frustrazione, ogni giorno potrei parlare di lui, mostrare le foto in cui è bello come un dio. Ma non posso scocciare le persone con la mia nostalgia. Sono riuscita a incarnare mio padre senza dolore. L’ho preso come un gioco, per non farmi invadere dall’emozione. Volevo evitare il pathos, non sarebbe stato generoso usare il film come una sorta di psicoanalisi. Quest’avventura è immersa nell’immaginario cinematografico, all’inizio sono vestita e pettinata come Anita Ekberg in una fontana parigina, e si arriva a quella di Trevi, dove ormai sono Marcello».
Vivere in mezzo alla carreggiata, tra Francia e Italia.
«Anche se nel film è come se parlasse mio padre, ho difficoltà a dire certe consonanti, la “r” italiana non mi viene facile. Non ho visto tutti i film di papà. Ho guardato molte sue interviste e l’ho ritrovato».
Chiara, lei non è così conosciuta in Italia.
«Sono conosciuta come la figlia di Mastroianni. Una volta a Roma ero seduta a un ristorante, il cameriere mi disse che somigliavo a un cliente che frequentava spesso quel locale, gli dissi che era mio padre».
Nel 2019 a Cannes lei vinse come migliore attrice ma...
«Nella sezione Un certain regard, il film è Chambre 212 di Christophe Honoré. Avevo un sentimento di illegittimità, il che accade di frequente agli attori, e il riconoscimento non mi guarì. Il mio destino di diventare attrice è nato dal mio piacere di spettatrice, dal mio amore per i film. Christophe è un caro amico, mi ha detto che senza il mio assenso non avrebbe scritto la sceneggiatura».
Chi era suo padre?
«Aveva una doppia anima, era allegro e gioioso e al tempo stesso malinconico. Era umile, alla mano, mai egocentrico. La gente pensa d’averlo conosciuto anche se non l’ha mai incontrato. Era un uomo di cultura popolare, non c’era niente di prefabbricato in lui. Nel film, mamma mi dice che non ho niente di lei, che sono tutta Mastroianni».
Aveva una sua malinconia...
«Diceva che gli attori sono condannati alla cosa terribile di doversi rivedere continuamente da giovani. E mamma dice di avere una sola passione: il presente».
 
Chiara Mastroianni con il papà Marcello. Quando il grande attore è morto, aveva 24 anni
E sua madre?
«Nel film canta: non ho amato più nessuno come te. Lei viene percepita come una donna fredda e distante, mentre è l’esatto contrario. Sono cliché. La prima volta che ho recitato con lei fu per A noi due. Avevo sette anni. Non è mai entrata a gamba tesa nelle mie scelte professionali, non è il tipo di madre che dispensa consigli».
C’è qualcosa che accomuna i suoi genitori?
«Il pudore, anche se si manifestava in modo diverso, mia madre è più riservata. Lei dice che somiglio a mio padre, che sono più italiana anche se vivo a Parigi, perché soffro se non ci sono il sole e la luce, che somiglio a mio padre. Papà quando era contrariato mi chiamava la francesina. I miei si sono separati che io avevo due anni. Sono stata una privilegiata. Da entrambi ho preso il senso dell’umorismo, anzi mia madre ha una sorta di autoderisione, che è stata la sua salvezza. Il suo motto è: per quanto si possa essere sul trono più importante del mondo, alla fine si è sempre seduti sulle proprie chiappe. Forte, no? Se non siamo capaci di ridere è finita».
Ma da ragazza...
«C’è una battuta del film in cui dico che mi piace sparire. Il gioco delle somiglianze c’è in ogni famiglia. Quando ero ragazza è stata dura, sentivo il bisogno di affermare la mia personalità, volevo prendere le distanze, poi mi sono detta, d’accordo, non puoi farci nulla, sarà così per tutta la vita. E ho fatto pace con me stessa. E poi rispondere su di lui era un modo per evitare di parlare di me. I miei si sono separati che ero molto piccola, li ho visti come coppia nei film, non nella vita vera».
Il paradosso è che, recitando suo padre, non è più «figlia di».
«A un certo punto nel film dico: ho l’impressione di essere diventata il fantasma di mio padre».