La Stampa, 21 giugno 2024
La volta che lo sport diventò letteratura
L’intervento di Darwin Pastorin contenuto nel volume L’officina dello sport (Marsilio)
Lo sport, e soprattutto il calcio, nostra passione collettiva, diventa, definitivamente, letteratura il 2 febbraio 1969, quando sul quotidiano torinese La Stampa, Giovanni Arpino, scrittore celebrato, autore di La suora giovane, del 1959, elogiato da Eugenio Montale e premio Strega nel 1964 con L’ombra delle colline, comincia a scrivere su indicazione di Guido Piovene al direttore Alberto Ronchey, nel giorno della partita, una rubrica settimanale dal titolo Lo specchio della domenica. E il debutto è subito polemico. Un duello in punta di penna con un altro gigante delle lettere: Pier Paolo Pasolini.
Lo scrittore corsaro si augurava una sconfitta del pugile Nino Benvenuti, altre cadute della Nazionale tipo Corea del Nord (Mondiali d’Inghilterra 1966, 1-0, per i “ridolini”, così li aveva definiti Ferruccio Valcareggi, vice del commissario tecnico Mondino Fabbri, asiatici) «in modo che non ci aspettino più, una volta per sempre, delle false consolazioni ai bassi salari».
Arpino non prese bene questo commento, nel tempo in cui la maggior parte della intellighenzia considerava, non solo la religione, ma lo sport, fumo gettato negli occhi dei ceti deboli per non pensare di essere emarginati e sfruttati. Ed ecco spedita la risposta: «Le parole di Pasolini, patetiche e paradossali, appartengono a un vocabolario che di volta in volta scarica sullo sport tonnellate di interpretazioni capziose, quasi lo sport fosse soltanto ingannevole evasione, spregevole diversivo, il solito oppio dei popoli, e non un’attività, non un crocevia di tecniche diverse e importanti, talora quasi una scienza. Usare lo sport come bersaglio è arma vecchia, è argomentazione qualunquistica, tipica presso certa sociologia avventata». Perché siamo davanti, in quel 2 febbraio 1969, l’anno dell’uomo sulla luna e della strage di Piazza Fontana, la fine per molti giovani dell’età della giovinezza e della spensieratezza, a una vera e propria rivoluzione?
Perché il narrare di sport aveva, finalmente, trovato il suo punto costante di riferimento, la sua bussola, il suo maestro, colui che insegnò a tanti cronisti a essere «bracconieri di storie e personaggi». Certo, c’era Gianni Brera. Ma era un giornalista sportivo a tutti gli effetti, il più bravo di tutti, colui che inventò neologismi e soprannomi: “libero” e “Centrocampista”, che vennero utilizzati anche dalla stampa straniera.
Impossibile, poi, dimenticare “Abatino” per Gianni Rivera (e prima ancora per Livio Berruti, medaglia d’oro nei 200 metri alle Olimpiadi di Roma), “Rombo di tuono” per Gigi Riva, “Rosso volante” per Eugenio Monti (fuoriclasse del bob), “Schopenhauer” per l’allenatore Osvaldo Bagnoli.
Ci sono state importanti “incursioni": come quella di Dino Buzzati, lo scrittore del Deserto dei Tartari e di Un amore, mandato per le strade del Giro d’Italia del 1949, pochi giorni dopo la scomparsa, nel rogo di Superga, del Grande Torino («Niente c’è più, / niente c’è più, o un barbaglio? niente, niente, non c’è più niente, piove / qui dove noi diciamo Rigamonti, / Castigliano, Maroso, Ballarin», poetò Mario Luzi).
Era il tempo in cui il ciclismo dominava ancora sul pallone e in quell’edizione Fausto Coppi vinse davanti al suo eterno rivale Gino Bartali, due miti che aiutarono, come gli eroi guidati da capitan Valentino Mazzola, l’Italia a uscire dalle ceneri della Seconda guerra mondiale e dal ventennio fascista. Era il Giro della famosa frase del radiocronista Mario Ferretti: «Un solo uomo è al comando, la sua maglia è bianco celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Nel suo ultimo articolo, Buzzati così salutò: «Non tramonterà mai la fiaba del ciclismo». A noi piace pensare il giovane Italo Calvino, nel 1947, nella redazione torinese de L’Unità a impaginare gli articoli dal Giro d’Italia del poeta Alfonso Gatto (al quale, Fausto Coppi provò, inutilmente, a insegnare ad andare in bici). O alle pagine che, nel tempo, scrissero pure quegli altri grandi “incursori” che erano Orio e Guido Vergani.
Un’incursione anche quella di Pier Paolo Pasolini, che amava giocare a pallone, da ala destra, il ruolo dei fantasisti, dei sognatori e dei ribelli, tifava per il Bologna e definì il football «un linguaggio di poeti e prosatori», dicendo a Guido Gerosa in una intervista per L’Europeo del 31 dicembre 1970: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituto il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso.
Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo». Pasolini coinvolse nel film Medea (del 1969, tratto dalla tragedia di Euripide), con protagonista Maria Callas, il triplista Giuseppe Gentile (ex primatista mondiale, medaglia di bronzo in Messico nel 1968) nel ruolo di Giasone e il discobolo Gianni Brandizzi in quello di Ercole. Giacomo Bulgarelli, fuoriclasse del Bologna, e idolo di Pasolini, rifiutò invece una parte nei Racconti di Canterbury.
Come quella di Umberto Saba che, consigliato da Carletto Cerne, suo “ragazzo di bottega”, alla Libreria antiquaria di Trieste («Morti chiedono a un morto libri morti»), andò allo stadio, due sole volte, a vedere la Triestina, portando a casa, come si dice, le famose Cinque poesie sul gioco del calcio, con Goal su tutte, quasi un “anticipo”, pensateci bene, delle dirette televisive del football moderno: in primo piano «il portiere caduto alla difesa», il campo largo per «la folla – unita ebbrezza» e i compagni che abbracciano l’autore della rete, altro primo piano per il portiere della squadra che ha segnato «si fa baci che manda di lontano / della festa – egli dice – anch’io son parte».
Grazie ad Arpino, insomma, scrivere di pallone, di ciclismo, di boxe, di basket si trasformò, improvvisamente, in un modo di valutare, attraverso il gioco, l’agonismo, le qualità non solo tecniche di un uomo e di una donna, ma anche il carattere di una nazione, un appiglio per ragionare di poetica e sociologia, antropologia e persino metafisica. —