La Stampa, 21 giugno 2024
La maturità per Paola Mastrocola
Gli esami di maturità riguardano tutti noi, non solo i ragazzi impegnati a sostenerli. Ci riguardano non soltanto perché ci sentiamo naturalmente vicini e partecipi, e attraverso di loro ritorniamo un po’ anche noi ai nostri esami; e nemmeno perché, in senso più simbolico, quei giovani sono il nostro futuro e guardiamo a loro con fiducia e speranza. Quegli esami ci riguardano perché parlano di noi come società, rappresentano qualcosa del punto in cui tutti quanti siamo arrivati, sono una specie di cartina di tornasole. Per questo è estremamente interessante curiosare tra le tracce dei temi proposti e la varietà delle prove.
Primo giorno: tema sui blog e i social come forma innovativa della scrittura diaristica. Secondo giorno: al classico la versione di un passo di Platone.
Platone e i blog: una bella distanza, non c’è che dire. Il passato e il presente, e per giunta un passato più che remoto e un presente più che vicino. Il mio primo pensiero è di plauso. Così dev’essere, così deve fare la scuola: tenere saldo il filo con il passato, mantenere la presa, non far cadere; e, dall’altro lato, non rifiutare le sfide del presente, atteggiamento che sarebbe miope e fuori dalla realtà. I due gesti sono entrambi necessari, e insieme sono quel che dobbiamo chiamare cultura. Che poi i ragazzi si misurino con la distanza proprio alla fine del loro percorso scolastico, dove lo studio li ha immersi nei secoli più remoti, mi sembra un ottimo segnale. Il messaggio è che lo studio è ancora ritenuto un valore immenso, non qualcosa di vano o irrilevante, imposto da menti ottuse e retrograde. Lo studio annulla il tempo, è ciò che rende presente il passato, che altrimenti non esisterebbe.
Il secondo pensiero riguarda proprio la durata, quindi la memoria. Ciò che è effimero e ciò che è immortale. Ciò che resiste al tempo e permane, e ciò che dura lo spazio di un mattino e subito si vaporizza in niente. Da una parte l’autore che dura, che ha fondato il pensiero occidentale e rimane un pilastro. Dall’altra la scrittura anonima, impermanente, labile. Platone ci parla da duemilacinquecento anni. I blog ci sommergono ogni giorno di parole che subito spariscono, e per di più stanno esaurendo la loro carica, sono forse già in via di estinzione, superati dai social e dalle più recenti piattaforme digitali.
Certo, chi scrive in rete non lo fa tanto per esprimere il proprio pensiero, quanto per collegarsi, connettersi, relazionarsi, condividere. Essere visibili, cliccabili, linkabili. È un’altra storia, lo so, e sarebbe inadeguato tentare confronti. In rete si scrive non per ragioni artistiche, credo, ma per altro. Che sia per tornaconto commerciale o esistenziale, alla fine poco importa: comunque non durerà.
Ma a chi scrive interessa ancora durare?
La durata è un tema che ci prende sempre. Fa parte del nostro essere mortali chiederci se qualcosa durerà nel tempo oltre la nostra morte o morirà con noi. Il sogno di tutti è lasciare qualcosa che resti. Può essere un quadro, un poema epico o anche solo gli oggetti che lasciamo in eredità: mobili, posate d’argento, un bilocale, una vecchia Cinquecento Fiat.
L’arte e la letteratura hanno sempre avuto questa ambizione, più o meno segreta: creare opere che vadano oltre la vita di chi le produce. Non so se oggi sia ancora così ma credo che, anche se lo volessimo, non sarebbe più possibile. Molti giovani coltivano ancora il sogno di diventare scrittori, s’iscrivono alle scuole di scrittura e sperano di vedere i loro scritti pubblicati in libri veri, cartacei: sembrerebbe un sogno arcaico, se non fosse un sogno senza tempo, che non finirà mai. Ma oggi i libri durano ben poco. Ogni libro appena esce viene travolto dalla valanga delle migliaia di libri che escono insieme a lui. E quei pochi che emergono non si sa quanto dureranno. Si chiama mercato, ed è una dura e antipatica legge.
Perché Platone dura? Sembra facile rispondere: perché Platone è un grande. Platone insieme a Aristotele, Omero, Dante, Shakespeare, Eschilo, Virgilio, Goethe… E fino a dove, fino a chi, si può parlare di grandezza duratura? Nell’Ottocento e Novecento qualcuno è riuscito a rimanere: Ungaretti e Pirandello di sicuro, entrambi nelle tracce dei temi di quest’anno; e Melville, Freud, Hemingway, Tolstoj, Leopardi, Montale, Dovstoevskij, Nietzsche… Fin dove possiamo arrivare? Alla Morante, a Calvino, a Montale, per restare in Italia… E poi? E fino a quando? Chi durerà quanto Platone? Chi dei contemporanei sarà nelle tracce dei temi fra duemilacinquecento anni? È la quantità esorbitante che uccide la durata. Non dipende solo dalle qualità dell’opera, ma anche dal periodo storico in cui si trova a essere, dipende dalla densità e dal frastuono che le stanno intorno. E il nostro tempo, in questo senso, non è favorevole.
Ma davvero c’entra poco la qualità dell’opera, oggi che viviamo in un’epoca di degrado culturale e distruzione del pensiero?
Fermiamoci qui, ci stiamo spingendo troppo in là. Restiamo allo stupore, alla meravigliata ammirazione: Platone! Ancora i nostri ragazzi leggono Platone, lo studiano, lo traducono. Vuol dire che ce l’abbiamo fatta. Non lo abbiamo fatto morire.
E il paradosso, tra parentesi, è che Platone deve la sua durata al fatto che ci abbia lasciato opere scritte, lui che affermava il primato del discorso orale, e temeva che l’invenzione della scrittura avrebbe cancellato la facoltà della memoria. —