il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2024
Intervista a Olivier Assaya
Se non lo conoscete, peggio per voi. Raffinato come solo i francesi, cosmopolita nel sangue e poliglotta per virtù (parla un italiano seducente), re di cuori (la bellissima attrice Maggie Cheung per ex moglie, un figlio dalla collega Mia Hansen-Løve) e fante di fiori, quelli offerti alle sue interpreti, da Juliette Binoche (Sils Maria e Il gioco delle coppie) a Penélope Cruz (Wasp Network), da Kristen Stewart ad Alicia Vikander: sessantanove anni ancora ragazzini, il senso dell’artista per il femminile, Olivier Assayas è chic e impegna.
Recuperate, almeno, Irma Vep, film e serie, Demonlover e Clean, e preparatevi all’ultima ricercata miscela di memoria, pandemia e affetti: Hors du temps, battezzato al Biografilm Festival e prossimamente nelle nostre sale. Sullo schermo, il buen retiro dal Covid spartito da Assayas con il fratello e le rispettive compagne: anziché il Decameron una caméra-stylo intinta nell’autobiografia e nel pudore.
Assayas, si dà all’autofiction?
Ho girato il film nella casa di mio padre, dove ho passato più di tre mesi durante il Covid provando a dimenticare l’orrore di quello che stava accadendo. Un’esperienza strana, insieme di incontro e morte: volevo capire se il cinema avesse la capacità di catturarla.
Quanto c’è di lei in Etienne, l’alter ego incarnato da Vincent Macaigne?
Vincent ha inventato un modo di imitarmi molto divertente, e penso che le cose personali, complesse si possano raccontare solo con lo humour.
Col Covid è stata la realtà, e non più il cinema, a richiederci la sospensione dell’incredulità.
Nella nostra generazione qualcosa di analogo non era mai accaduto: mi sono rimaste tante questioni aperte. Possiamo paragonare il Covid al Maggio francese, il Sessantotto, o all’11 settembre del 2001, eventi capitali che non sappiamo controllare: ci impongono di trovare risposte giuste al mistero.
Viviamo un altro tempo sospeso: sulle guerre qui e ora un film lo farebbe?
No, non ho la competenza. Quando ho realizzato la serie Carlos (il terrorista Ilich Ramírez Sánchez, ndr) erano passati 25 anni dai fatti narrati, sicché c’era sufficiente documentazione per un lavoro storico. Quando si parla di Ucraina, Gaza e tutte le schifezze che stanno accadendo non c’è la distanza: non abbiamo fatti, bensì polemiche e suscettibilità. E credo il lavoro di regista sia più dello storico che del giornalista. Intendiamoci, il giornalismo è prezioso, ma gli difetta sempre una visione globale e la prospettiva storica.
In Hors du temps allude a un ruolo da suora per Kirsten Stewart, la star di Twilight che ha sdoganato al cinema d’autore: sul serio, un terzo film con lei lo farebbe?
Sono sempre stato convinto che dovessi firmare una trilogia con Kirsten. Dopo Sils Maria e Personal Shopper, ne manca uno: c’è la volontà, il vincolo di farlo.
Come quei due, anche Hors du temps è sopra tutto una storia fantasmatica.
I fantasmi sono la presenza dell’invisibile nella nostra vita. L’invisibile è presentissimo, e credo il cinema abbia la capacità di dargli una forma. Materialistica e immaginativa, le due dimensioni dell’esistenza condividono la medesima verità: un film l’asseconda.
Dopo la folgorante Carlos, ha bissato con l’ambiziosa e metacinematografica Irma Vep: oggi la serialità è il veicolo privilegiato per un autore?
Guardi, non so cosa risponderle… Non avevo mai fatto un film di 8 ore in una situazione di assoluta libertà: bellissimo! Irma Vep è costato qualcosa come 40 milioni di dollari, e davvero non capisco perché mi abbiano dato tutti questi soldi per un film assolutamente pazzo. Il sistema di produzione cinematografico mai mi avrebbe finanziato, viva la serialità!
Madame Catherine Deneuve lamenta che i rapporti di scambio tra cinema italiano e francese siano ai minimi termini: ha ragione?
Certo che ha ragione, il sistema è cambiato tantissimo. Tutti i grandi film degli anni Sessanta erano delle coproduzioni franco-italiane, e anche tedesche, con una mescola di artisti, attori europei, oggi non più: i film si chiudono finanziariamente altrimenti, altrove.
A proposito di italiani, la storia del quadro di Modigliani rifiutato da suo nonno è vera?
Certo che sì! Me l’ha raccontata mio padre, non capivo come mai ci fosse questo quadro di Francesco Zuccarelli a casa: non corrispondeva al suo gusto, di scrittore amante dell’arte moderna, bensì a quello di mio nonno, un banchiere gentile ma artisticamente sprovveduto. Anziché Modigliani, prese Zuccarelli: papà ci rideva sopra, che altro poteva fare?