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 2024  giugno 20 Giovedì calendario

Intervista Eleonora Matarrese


«Decifrare il manoscritto di Voynich? È come il principio del francescano Guglielmo da Ockam: “Non aggiungete elementi quando non serve”. La soluzione spesso è davanti ai nostri occhi». Eleonora Matarrese è una ricercatrice e docente specialista in filologia e botanica, classe 1976, che è riuscita svelare il significato di questo codice datato tra il 1404 e il 1438, e che nel 1912 l’antiquario Wilfrid Voynich acquisì durante un’asta di volumi rari, indetta dai gesuiti di Villa Mondragone, presso Frascati. All’interno, trovò anche una lettera diretta ad Athanasius Kircher, il famoso studioso del Seicento, in cui gli si chiedeva di analizzarlo. Poi il manoscritto passò di mano e oggi è custodito dall’Università di Yale. Dove anche Umberto Eco passava per ammirarlo. Per tutti questi secoli, il suo significato è rimasto un enigma. Ma Matarrese afferma di avere individuato i caratteri e la lingua usata: un dialetto alto-tedesco simile a quello parlato nelle isole linguistiche della Carnia, in Friuli. E ha presentato il frutto dei suoi lavori alle Vie dei Libri di Tolmezzo, il Festival letterario che si è tenuto lo scorso weekend proprio nel cuore della Carnia.
Negli Usa neppure la Cia era riuscita a decifrarlo, vero?
«Ci aveva provato Mary D’Imperio, una criptologa di origine italiana, che lavorava per i servizi segreti. Perché per molto tempo il manoscritto è rimasto “classificato”. Si pensava che fosse un falso, e che contenesse dei segreti».
E invece?
«È un codice composto da quattro trattati. Il primo ovviamente è un erbario, con le prime schede botaniche realizzate osservando dal vivo. Ci sono delle schede, con gli elementi per far capire dove raccogliere le piante e per cosa usarle. Per esempio il fiordaliso alle radici ha i bulbi oculari».
Perché, a cosa serve il fiordaliso?
«Ancora oggi viene utilizzato in infuso, come collirio per disinfiammare. Per ogni pianta ci sono delle caratteristiche».
Altri esempi?
«La malva ha sotto l’apparato genitale femminile, ancora oggi è nota come antinfiammatorio. Dove si trova il serpente vicino alla radice, per esempio, significa che è una pianta velenosa».
Quindi, niente di esoterico?
«Non nel senso che diamo noi oggi a questa parola. È il documento di una cultura perduta. Ed è sicuramente di origine germanica».
Quando è iniziato il suo interesse per questo manoscritto?
«Una signora che aveva fatto dei corsi con me – io insegno riconoscimento, raccolta e trasformazione delle specie vegetali – mi disse 17 anni fa: “Tu che ti occupi di erbe sicuramente lo conosci”. E mi mandò un link al manoscritto».
E lei?
«Quando l’ho visto ho avuto un colpo, ero affascinata dall’erbario. E poi, da linguista, anche dalla scrittura. Ho potuto unire i miei due interessi. Un ricercatore, Sergio Toresella, ha scritto che nessuno con una conoscenza della storia della botanica e una conoscenza filologica si era mai approcciato con criterio al manoscritto. Mi sono sentita tirata in causa».
Quali sono le sue specialità in campo botanico?
«Fitoalimurgia, etnobotanica. Vale a dire, lo studio delle specie vegetali spontanee che sono utilizzate dall’uomo nella storia in vari modi, quindi per quanto mi riguarda prevalentemente come cibo».
Come ha fatto a venirne a capo?
«Ho studiato prima di tutto tutte le teorie, anche le più strampalate, perché in ognuna c’è qualcosa di buono. E poi sono stata molto colpita dall’analisi di una costellazione riportata: dicevano che ci fosse scritto Taurus, ma a me non tornava».
E cosa c’era scritto, invece?
«Avendo studiato filologia germanica, avevo letto il Beowulf. Che esiste in un unico manoscritto, in antico inglese, ed è scritto con i caratteri dell’epoca. Io non so perché, quando guardavo il Voynich, vedevo qualcosa del Beowulf. Ed è stato da lì che ho individuato i caratteri. La costellazione era un’altra, era Boötes».
E poi ha trovato un altro indizio a Tolmezzo?
«Sì, ho iniziato a guardare tutti gli erbari antichi. E il Gart der Gesundheit, il “Giardino della Salute”, che è uno dei primi libri stampati, ed è pieno di glosse, di note. Con la scrittura di allora. Parte di queste glosse, le più antiche che risalgono al 1485-1486, sono in una scrittura molto simile a quella del Voynich, ci sono gli stessi caratteri».
Ma qual era la funzione di questo manoscritto? Il manuale di un druido dell’epoca?
«No, io credo di no. La storia della botanica è stata ferma per tanti anni, o meglio non esisteva, perché sostanzialmente copiavano il De Materia Medica di Dioscoride, che era l’opera per eccellenza. La datazione al radiocarbonio del Voynich è in un range dal 1350 al 1450, quello è il periodo in cui cominciano ad arrivare dal Medio Oriente piante nuove».
Questo cosa significa?
«Che il manoscritto si colloca esattamente nel periodo in cui ricominciano a guardare la natura, e a mettere nero su bianco le piante dell’areale carnico e gli usi a cui servivano. La prima pianta è endemica della Carnia. E l’ultima frase della pagina è una ricetta che dice: “Prendi i semi e mettili nella pentola con il grasso per condirli"».
Pure le ricette?
«Sì, tante volte la soluzione ce l’abbiamo davanti ma non sappiamo vederla. Allora tutte le informazioni sui libri si trovavano nell’ultima pagina. E nel Voynich si legge: “Questo libro è stato realizzato sulle rive della But”, un fiume che esiste soltanto tra Tolmezzo e Timau in Carnia».
Cosa dicono a Yale della sua ricerca?
«Alla Biblioteca Beinecke dell’Università, dove è custodito, dicono che loro non si occupano di questo. Allora ho contattato la paleografa che si è occupata dell’analisi del manoscritto, che ora sta leggendo i miei testi. Ho scritto due libri per presentare le mie teorie».